lunedì 23 dicembre 2013

I costi della politica

Su La Stampa del 17 Dicembre è comparso questo articolo che riassume e commenta uno studio fatto dalla UIL sui costi della politica. In un momento nel quale tutti parlano di casta, di soldi gettati e di soluzioni epocali che risolvono tutti i problemi italiani in una semplice mossa (e su questo raccolgono pure più del 20% dei favori dell'elettorato), questo studio molto asettico - magari da verificare, ma sicuramente qualcosa di più delle chiacchiere da bar sparate da comici veri o presunti tali - aiuta a mettere a fuoco meglio cosa significhi veramente costo della politica.

Scorrendo i numeri si scoprono stranezze, e crollano miti in negativo ed in positivo, ma soprattutto ci si rende conto di quanto siano cialtrone le affermazioni che quotidianamente passano sui blog, in tv, nelle discussioni dei soporiferi talk show che ammorbano la finta informazione.

Il "palazzo" per eccellenza, ossia le Camere, i ministeri, la presidenza della Repubblica, tutti insieme costano 3 miliardi di euro all'anno. In un anno il suo costo è calato del 4%, senza comportare significative riduzioni di funzionalità. I tanto famosi rimborsi elettorali valgono circa 100 milioni, più o meno quanto è stato possibile tagliare senza sforzo. La prima domanda che ci si pone è: ma quanto si può tagliare già solo in questo ambito?

Le regioni, tutte assieme, costano un miliardo all'anno. Le province mezzo. Tuttavia, mentre le regioni hanno degli importanti compiti da svolgere (se bene o male è un altro piano di discussione), le province sono sostanzialmente degli enti inutili (i loro compiti sono sostanzialmente stati sottratti alle regioni negli ambiti della protezione del territorio e dei trasporti, e ai comuni per quanto riguarda gli edifici scolastici). I comuni costano un altro miliardo e mezzo, sicché i costi del palazzo equivalgono grossomodo ai costi dell'intera politica locale.

Purtroppo, per il cittadino italiano, i costi non si arrestano qui. Nel sottobosco della politica proliferano una miriade di società partecipate, nei cui consigli di amministrazione vive una flotta enorme di persone che o sono politici a tutti gli effetti, o comunque vivono di politica. Quanti? La UIL stima che, a fronte di 144.000 politici eletti nei vari istituti di rappresentanza (comuni, province, regioni, parlamento) ci sia un mezzo milione di persone che viaggia fra CdA, collegi sindacali e dei revisori, apparato politico a supporto, più un ulteriore mezzo milione di consulenti vari. In questo sottobosco si perdono quasi 5 miliardi all'anno. Una parte di questa spesa è sacrosanta (le società pubbliche spesso hanno la loro ragione di esistere), ma scorrendo la lista si vede che moltissime di queste hanno come loro missione solo quella di creare degli stipendi. E qui si scoprono alcune meraviglie: il 40% di tutte le società partecipate afferiscono a solo due regioni. Curiosa questa cosa, no? Beh, queste due regioni non sono le solite regioni "del malaffare", come possono pensare molti. E non si tratta nemmeno della regione della Roma Ladrona. Le due regioni mangiatutto sono il Piemonte e la Lombardia, sostanzialmente a pari merito. Se aggiungiamo alla coppia il Veneto, abbiamo in queste tre regioni più della metà delle società partecipate. Ma la cosa più impressionante che delle 7000 società che afferiscono alla pubblica amministrazione, più del 90% dipende dalle regioni (un numero significativo di queste riguarda le società per la gestione della sanità pubblica, sulle quali ci sarebbe poi da entrare nel merito per le spese che le riguardano). Di queste società, sicuramente più del 7% sono inattive, ossia sono società che non hanno alcuno scopo (ma hanno CdA, collegi sindacali, ecc), più una miriade in liquidazione ma, curiosamente, ancora attive. Insomma, ci sono tutti gli indicatori per pensare che il grosso dello spreco della politica si annidi alla periferia, segnatamente nelle regioni e nelle province.

Aggiungendo ai costi sopra elencati quelli per il mantenimento di questo apparato, la UIL stima una spesa annua di 23 miliardi, l'1,5% del PIL. La domanda è: possibile che invece di inventarsi l'ennesima tassa non si possa intervenire su questa marea di sprechi?

martedì 3 dicembre 2013

Presto che è tardi

Hai presente una casa disabitata d'inverno? Una casa là, nella bassa, dove le stagioni alternano l'afa alle nebbie. Una di quelle case che vanno per i cento anni, con i muri pieni, spessi. Le case con i muri portanti, come non se ne fanno più, e i solai fatti con le travi di legno, elastici, che senti il pavimento che oscilla sotto i tuoi passi ma no, non temi che cada, è come saltare su di una rete elastica.
Ecco, una casa così. Ma non una qualsiasi: una che ha a che fare con la vita di quei due anziani lì davanti a te, che sembrano schiacciati sotto un peso. I volti tesi, i movimenti scoordinati di chi non sa cosa cercare, cosa fare. Lei che stacca foto, le raccoglie. Ti chiedi perché non l'ha fatto finora, in tutti questi anni, ma è una domanda retorica: non voleva che arrivasse questo momento. Lui che cammina spavaldo nel nevischio che cade, e va nel garage, e torna, e poi ritorna là, oscillando in un'ozioso e inconcludente andirivieni.

La casa ci tiene a mostrare che da dieci anni non ci abita nessuno: ragnatele ovunque, polvere sul tavolo dal cristallo scuro. Mobili che vedo da sempre, da quando sono nato. Improvvisamente un flash: questo arredamento è tornato nello stesso posto nel quale me lo ricordavo, quell'inverno del 65, quello triste dopo la morte della nonna, ed il ritorno di mio padre dal Perù. La stanza più in là era gelata, come oggi l'intera casa, e non si poteva andare. E questa stanza era popolata dai giochi portati da Gesù Bambino, ma l'espressione della mamma, con mia sorella in braccio, non era allegra.

Nell'altra stanza i segni di vita di mia zia: le sue cose, distribuite tutto attorno, nel suo ordine/disordine. Tutte ancora li, come dieci anni fa. I due anziani sembrano non sentire il freddo che scava dentro: hanno mille cose da non fare, per guadagnar tempo. Tempo per vagare in pace fra quelle stanze, tante come si conviene ad una casa di campagna, attraversata dal corridoio che, come vuole la regola, corre dalla porta d'ingresso alla porta sul retro.

Presto che è tardi. Come un bianconiglio stagionato cerco di scuoterli, di trascinarli via dalla sfasatura che stanno vivendo. Vendere la casa, quella casa. Portarsi via qualche ricordo, pezzi di vita trascorsa. Anch'io ho tanto lì dentro. Guardo la stanza dove sono nato, quella dove ho dormito il sonno invernale più corroborante, in un silenzio di cielo gelido stellato che ti faceva godere del caldo abbraccio delle coperte, con il sottofondo del russare del nonno (da qualcuno avrò ben preso...). Sotto il nevischio si va via. Ho dovuto promettere che il prossimo weekend ci si torna. Sarà l'ultima volta che metteremo piede in quella casa.


giovedì 17 ottobre 2013

Trent'anni

E così anche le foglie dei platani di strada cominciano ad ingiallire e cadere. Come sempre.
Tante volte, da allora. Massimo ci invitò ad uscire una sera, Stefano ed io. Tre compagni di liceo, usciti da poco. Massimo con una delle sue auto cesse, una Horizon che però aveva i primi vetri elettrici che ricordo: io ci misi otto anni ad avere la prima macchina dotata di questo fondamentale accessorio....
Quella sera ci trovammo a Milano. Massimo ci disse che "doveva" sposarsi. La prima domanda, contornata di vaffa di ritorno, fu: "con chi?". La ragione di quel matrimonio riparatore la tenni in braccio in autunno, e quest anno ha compiuto 30 anni (il mio stesso giorno, ma questa è un'altra storia).

Da quella sera non vidi più Stefano. Lui, nato a Milano, andò a vivere a Cremona, la mia città natale. Uno scambio. Trent'anni fa niente cellulari, niente facebook, niente internet. Pare che anche le diligenze fossero rare. Fatto sta che di Stefano persi le tracce. Massimo lo incrociai svariate volte, praticamente sempre per lavoro, ma passavano anni fra un incontro e l'altro.

Poi inventarono i cellulari, internet, i social network. E un giorno Stefano mi trovò su facebook. Cretini come a diciott'anni, a sparar minchiate come se ci fossimo salutati il giorno prima.

E sono cominciate a cadere le foglie, e la mia auto con a bordo Massimo si è fiondata nella bassa. Aria di casa anche per me, in fondo. Un appuntamento moderatamente assurdo nell'era del gps: troviamoci al primo semaforo di Cortemaggiore, per quelli che erano bimbi negli anni sessanta era la benzina, la SuperCortemaggiore, quella che poi diventò l'Agip. La camminata era la sua, dinoccolata, con quell'aria sempre da cazzeggiatore che è lì per caso. Solo i chili un po' di più, come d'altronde i miei. Massimo che ci sfotte, ragion per cui gli chiediamo dove lui avesse messo il parrucchino, perché così non lo si poteva proprio vedere...

La piazza di Roncole. La casa natale di Verdi sul lato corto, l'osteria di Guareschi su quello lungo, decorata da due osceni pupazzi colorati con le sembianze di Peppone e Don Camillo. Il nostro ristorante giusto accanto a casa Verdi. Gnocco fritto (qui si dice torta fritta, è già provincia di Parma), salumi di qualità (quanto tempo che non ne mangiavo...), la spalla cotta (delusione!). Otello, l'unico lambrusco premiato con tre bicchieri (veramente straordinario nel suo genere). Anoli in brodo da commuovermi. Chiacchiere e cazzate a nastro.

I platani che si spogliano. La gente attorno casa Verdi, il bicentenario della nascita. Laggiù, verso il fiume, la grande tenuta del Maestro, a Sant'Agata. Un uomo che si trovava a proprio agio a Parigi, ma stava bene solo fra le pioppe degli argini. La macchina che corre indietro, come a ricordare che trent'anni non passano invano.

sabato 31 agosto 2013

Dammi vento e ti darò miglia

Non mi capacito che sabato scorso me ne stavo sdraiato al sole, godendo il caldo ed il mare stupendo della Croazia, e stasera sto pensando già di recuperare una copertina da buttare sul letto.
In fondo siamo ancora ad Agosto, quella fine di Agosto durante la quale il caldo afoso dei primi giorni del mese si stempera in un umido languido. Quei giorni nelle cui mattine è bello svegliarsi e far l'amore.
Eppure sembra quasi ottobre, almeno fintanto che il temporale percuote il cielo e frusta d'acqua il suolo.

Guardo con attenzione le rose che si sono rimesse a fiorire, e mi chiedo se sia il caso di concimare di nuovo ora, per consentire una bellissima fioritura autunnale.
Ho cominciato ad acquistare l'uva: per ora l'americana e la bianca, aspettando il mio desiderato moscato d'amburgo.

Eppure quest'anno tutte queste attività mi sembrano surreali: passare dai ricordi del mare, dal caldo e dalla nudità della vacanza alla giacca, pantalone, scarpa di un autunno francamente in anticipo. Penso alla prossima settimana già nuovamente via per lavoro, la gatta di nuovo dai miei (credo che mi odierà per i continui trasferimenti), il motore già al massimo, mentre mi scorrono ancora le voci, i colori, i sapori, le emozioni di una vacanza che mi ha regalato tantissimo. Quest'anno mi sembra di essere stato derubato di un pezzo di vita, di quel periodo dell'anno nel quale si vive pienamente, e non al traino delle necessità lavorative. Altre volte mi ero sentito così, e a posteriori posso dire che quando ciò accadeva era perché sentivo di aver bisogno di cambiare, tipicamente cambiare lavoro. Ecco, ora probabilmente mi sento nello stesso stato d'animo: bisogno di cambiare azienda, ritmi di vita, vita. La vacanza mi ha regalato giornate magnifiche, mi ha regalato emozioni piene, ora vorrei renderle parte della vita.

La rotta è lunga, c'è acqua davanti alla prua.



giovedì 15 agosto 2013

Fatti non foste a viver come bruti




Per me il mare e la vela sono un simbolo, oltre che un piacere. Il simbolo della libertà, dell'avventura, del viaggio. Sapere grosso modo cosa si farà e dove, ma non precisamente. Calarsi in una dimensione nella quale il tempo, le distanze, le velocità sono diverse da quelle del quotidiano. Muoversi a velocità di corsa a piedi e comunque percorrere distanze da cartina geografica non è comune nella nostra vita, ma è un'esperienza. Si ha tempo per pensare, per discutere con sé stessi e con i compagni di viaggio. Si ha tempo per stare in silenzio, per odorare l'aria, per ragionare. Si sentono forti i bisogni primari: la sete (quanta sete in barca!), la fame. Spariscono come per magia i dolori che spesso mi affliggono durante il quotidiano, salvo ripresentarsi quando la tensione per il nuovo ed il diverso cala, alla sera nella cuccetta, ad esempio.

La mia piccola e veloce crocera attorno all'Elba è stata un assaggio di tutto ciò. Il tempo, forse, ci è stato tiranno, in quanto avevamo solo due giorni e mezzo di tempo, incastrati fra le esigenze della vita del mio collega nonché armatore e le mie. Ma anche così, e anche grazie al fatto che siamo due che vanno d'accordo, quasi la forzatura della fretta non l'abbiamo sentita. E anche la frustrazione di non poter scendere a terra la sera, e gozzovigliare in qualche ristorante del porto, non ci ha impedito di godere anche di paste improvvisate, cucinate con un occhio alla pentola, che non si rovesciasse mentre la barca rollava in modo sconsiderato alla fonda.


A volte essere costretti a stare alla fonda ha i suoi pregi: ti puoi godere tramonti come questo










oppure le feste del paese. da una posizione unica



E' stata un'esperienza meravigliosa. Un'esperienza di socializzazione, di cameratismo. E il ritorno, buon vento di bolina larga, la barca che filava sei nodi al limite delle sue possibilità fisiche regalando sensazioni indescrivibili di felicità, ha consegnato la piccola crociera ad una promessa: l'anno prossimo si va in Corsica. E mi piacerebbe tanto poter trasmettere a chi mi è vicino questo desiderio di lasciare terra e vivere l'avventura, per quanto questa sia molto tranquilla.
Per intanto mi tengo negli occhi il bellissimo mare davanti a Piombino, puntare sul promontorio di Baratti, a destra le ciminiere della città, le gru di porto che si spera possano continuare a pagare il salario a chi, di mare, ci campa.


venerdì 9 agosto 2013

Ozi agostani

A volte mi chiedo se invecchiando sto tornando giovane. Mi capita sempre più spesso di godere di cose semplici, di vivere sensazioni che avrei voluto poter provare a vent'anni e che invece mi trovo ad assaporare ora. Aspetti della vita che attraversano tutto: cibo, viaggio, sentimenti, sesso, tempo, amore. Quasi come se la maturità raggiunta mi avesse dato in dono la capacità di abbandonarmi, di sapermi mettere in gioco anche a rischio di farmi del male, anche a rischio di aver qualcuno che se la prende con me perché non sono ciò che vorrebbe. Ecco, a rischio di essere completamente me stesso.

Le vacanze di quest'anno rispecchiano un po' questa tendenza. Per anni ho vissuto nell'imbruttimento della vacanza del "fare": bisogna andare, non sprecare neppure una mezza giornata, vivere a ritmo ancora più elevato di quanto già viva le tante altre settimane dell'anno. Intendiamoci, non che non sia bello prendere ed andare all'altro capo del mondo (fatto!), ma talvolta la vacanza è qui, in piccole cose.
Ho vissuto a lungo (e continuo a sentirlo) la vacanza come un lungo unicum, almeno tre settimane, meglio quattro, di distacco da tutto e tutti. Da anni i telefonini mi tengono attaccato al lavoro anche in vacanza, e non son capace di distogliermi completamente da loro, ma anni fa mi ci voleva più di una settimana per riuscire a cambiare ritmo, registro, vivere del sole e del tempo lento.

Quest'anno le cose vanno diversamente. La settimana all'inizio di luglio non mi ha completamente staccato dal lavoro, è corsa via come acqua sull'ardesia. Incredibilmente questi primi giorni di ferie, di cui 4 trascorsi al mare ed il resto a casa, mi stanno rigenerando come non mai. Mare felice, e ozio totale ora. La casa che ha preso il sopravvento, cose ovunque nel più pieno disordine. La gatta che approva incondizionatamente. Leggere fino a mezzogiorno a letto, ed alzarsi solo per preparare una pasta, e rispondere ad una mail di lavoro, ma senza affanno. Cazzeggiare. Attendere la telefonata del collega per mettersi d'accordo per il giro dell'Elba a vela. Si, domenica ci sarà vento e anche un po' di mare, vorrà dire che ci divertiremo a far bordi. "Cosa porto io di cambusa?" "Porta tanta acqua!" "Ma che si mangia? Riusciamo ad andare a terra o stiamo in rada? Se è così portiamo pasta e sughi pronti, che ci facciamo qualcosa al volo". Insomma, vacanza vera.

Qualche giorno in barca, una cosa da maschi che sanno stare in compagnia senza bisogno di fare la gara di chi ce l'ha più lungo. Ci si lava sul ponte, si vive con ritmi e modalità non proprio ortodosse (orecchie tese di notte in rada a sentire se l'ancora ara sul fondo, sonno profondo durante il giorno, bagni nell'acqua pulita, mangiare quando si ha fame ciò che capita per le mani). Tornare con i capelli impastati di sale, il sole nella pelle.

E poi cambiare ancora la vacanza. Ancora mare, ma quello popolato da una storia varia, che va dalle rovine romane all'impronta veneziana, al contrasto fra il verde della natura e il blu schietto del mare pulito di roccia calcarea. Una settimana di vita desiderata, popolata di decisioni prese sui due piedi, senza ansie, senza pressioni. Godere di vita, di sapori, di profumi, di calore, di emozioni, della miglior compagnia che possa mai desiderare. Lasciarsi andare, vivere, gustare ogni istante, ogni piacere.


mercoledì 7 agosto 2013

Calda notte d'estate

Quando sento il suo corpo di creta bianca
e mobile tendersi a palpitare presso il mio,
è come una marea, quando lei è al mio fianco.

Disteso davanti ai mari del Sud ho visto
arrotolarsi le acque ed espandersi
incontenibilmente
fatalmente

nelle mattine e nei tramonti.

Acqua delle risacche sulle vecchie orme,
sulle vecchie tracce, sulle vecchie cose,
acqua delle risacche che dalle stelle
s'apre come una rosa immensa,
acqua che va avanzando sulle spiagge come
una mano ardita sotto una veste,
acqua che s'inoltra in mezzo alle scogliere,
acqua che s'infrange sulle rocce,
e come gli assassini silenziosa,
acqua implacabile come i vendicatori
acqua delle notti sinistre
sotto i moli come una vena spezzata,
o come il cuore del mare
in una irradiazione tremante e mostruosa.

È qualcosa che dentro mi trasporta e mi cresce
immensamente vicino, quando lei è al mio fianco,
è come una marea che s'infrange nei suoi occhi
e che bacia la sua bocca, i suoi seni, le mani.

Tenerezza di dolore e dolore d'impossibile,
ala dei terribili
che si muove nella notte della mia carne
e della sua come un'acuminata forza di frecce nel cielo.

Qualcosa d'immensa fuga,
che non se ne va, che graffia dentro,
qualcosa che nelle parole scava pozzi tremendi,
qualcosa che,
contro tutto s'infrange,
contro tutto,
come i prigionieri contro le celle!

Lei, scolpita nel cuore della notte,
dall'inquietudine dei miei occhi allucinati:
lei, incisa nei legni del bosco
dai coltelli delle mie mani,
lei, il suo piacere unito al mio,
lei, gli occhi suoi neri,
lei, il suo cuore, farfalla insanguinata
che con le due antenne d'istinto m'ha toccato!

Non sta in questo stretto altopiano della mia vita!
È come un vento scatenato!

Se le mie parole trapassano appena come aghi
dovrebbero straziare come spade o come aratri!

È come una marea che mi trascina e mi piega,
è come una marea, quando lei è al mio fianco!

Pablo Neruda



sabato 20 luglio 2013

Un bambino ricorda

Sono nato in una landa musicalmente fortunata. Non solo musicalmente, a dire il vero: la terra della mia campagna non l'ho vista mai più da nessuna parte. Guareschi, che se ne intendeva essendo pure lui di quell'area, diceva che bastava sputarci che questa produceva ogni ben di dio.
Questa fertilità agricola corrisponde alla fertilità musicale. Dalla mia città venne Monteverdi, il padre dell'Opera. Poco dopo le grandi dinastie dei liutai, i Guarneri, gli Stradivari. Poi Ponchielli e, praticamente coevo, Verdi.
Si, lo so. Verdi è di Busseto, provincia di Parma. Ma Busseto dista da Cremona 23km, da Parma 46. E' vero, in mezzo c'è il grande fiume, che separava popolazioni distanti poche chilometri segnandole di differenze sostanziali. Alcune cose però assimilano le due sponde: il piacere del cibo, il caldo umido, l'odore della terra sotto il sole. Queste cose modellano l'animo, e l'animo modella la musica.

Sono abbastanza vecchio da ricordare le osterie, quelle vere, quelle con i tavoloni di legno dalla dubbia pulizia, dai bicchieri di lambrusco che li segnano, dal povero cibo saporito che veniva servito. Dalla disperazione di essere l'unico svago concesso a molti dei loro frequentatori, svago fatto di briscole, di ciucche di vino, di bestemmie orrende, e di canti. Si, perché dopo un po' di giri di lambrusco le gole si scaldavano, e questi uomini consumati dalle fatiche dei campi, molti dei quali non avevano finito le elementari e lavoravano da prima di essersi cominciati a radere il viso, cominciavano a cantare l'opera, con una perizia ed una perfezione che noi ci sogniamo oggi.

Verdi era di quella razza lì. Era figlio di un oste di Roncole, anche lui avrà visto spettacoli simili a quelli che ricordo io, solo che si cantavano le opere settecentesche. L'opera non era più un divertimento della nobiltà: da qualche decennio era divenuta uno spettacolo popolare, soprattutto attraverso l'opera buffa, così distante dal gioco di richiami culturali dei libretti seri, basati spesso sulla mitologia o sulla storia. Verdi impara la musica rozza, quella di taverna, quella delle bande. Impara anche la musica da chiesa, sull'organo del villaggio. Gli entra nell'anima l'emozione popolare, quella dei contadini che cantano a cappella dopo essersi ben lubrificati con il vino.
Il Verdi giovane musicista che impara la musica accademica prova a scrivere opere del filone neoclassico, ma non fan parte della sua cultura. L'intuizione gli fa comprendere che il suo uditorio è rozzo e raffinato allo stesso tempo, ama il bel canto ma pure le storie che capisce, che sente. Verdi intuisce che il successo gli verrà dal fatto che questi melomani che non sanno leggere, uscendo da teatro canticchieranno le sue arie. Devono restare in mente. Devono colpire come pugni nello stomaco. Musica e testo.

Verdi era un contadino della mia terra. Attaccato ad essa, in modo viscerale. Quella terra sarà presente sempre nella sua opera, e nei suoi obiettivi. Verdi, scrivendo opere che piacevano, diventerà uno degli uomini più ricchi del suo tempo, investendo la sua ricchezza in terreni, da Busseto al grande fiume. Questa territorialità, questa sanguignità Verdi la esprime in massimo grado con la sua trilogia popolare: opere dalle storie a tinte forti, supportate da musica che si canta al primo ascolto. Apparentemente facile, talvolta come se si trattasse di brani da osteria.
Rigoletto ne è l'emblema. Storia torbida, con personaggi apparentemente semplici. Il Duca è la versione campagnola del Don Giovanni di Mozart, ma mentre quello era un raffinato viveur questi è un rozzo idiota vanesio, al di sotto della soglia minima tollerabile. Si presenta con la celebre aria "Questa o quella", creata su quel volgarissimo ritmo sincopato (che però è scritto in un raffinatissimo 6/8) che assomiglia ad un galoppo, ed un testo che più squallido non si può

Questa o quella per me pari sono
a quant'altre d'intorno, d'intorno mi vedo;
del mio core l'impero non cedo
meglio ad una che ad altra beltà.
La costoro avvenenza è qual dono
di che il fato ne infiora la vita;
s'oggi questa mi torna gradita,
forse un'altra, forse un'altra doman lo sarà,
un'altra, forse un'altra doman lo sarà.
La costanza, tiranna del core,
detestiamo qual morbo, qual morbo crudele;
sol chi vuole si serbe fidele;
non v'ha amor, se non v'è libertà.
De'mariti il geloso furore,
degli amanti le smanie derido;
anco d'Argo i cent'occhi disfido
se mi punge, se mi punge una qualche beltà,
se mi punge una qualche beltà.





Un'aria composta apposta per rimanere in mente al primo ascolto, furba. Eppure Verdi non dimentica di mostrare che lui sa scrivere musica: il ritmo viene preparato, introdotto sottotraccia nel recitarcantando che introduce all'aria. Lo si sente formarsi, quasi un corpo estraneo, un insistere di mi bemolle del flauto e dell'oboe prima in ritmo binario per poi passare al ternario della ballata. Poi, nello svolgimento dell'osceno canto, improvvisamente il colpo di genio sul "s'oggi questa mi torna gradita": una scivolata tonale proprio dove ci si aspetta uno sviluppo normale, allineato con la banalità dell'aria. E invece quelle tre note estranee, fuori tonalità, sono la firma del grande musicista, che ti dice che lui si, ha scritto un'aria per far successo, ma che se sei attento capisci che di aver a che fare con un genio.

Un grande musicista, si, e anche un uomo che capisce di teatro ed emozioni. Piega il libretto in modo da caratterizzare i personaggi in modo viscerale. Il bel Duca è uno squallido uomo, lo squallido e fisicamente ripugnante Rigoletto mostra un coraggio e una determinazione che i nobili cortigiani non hanno, nemmeno colui che lo maledice. Ma contro il destino, contro il fato nessuno può combattere: il Duca, uomo vacuo, è protetto dal suo fascino che lo salva, attraverso una donna che implora la sua salvezza (la sorella di Sparafucile) ed un'altra che dona la sua vita per lui (Gilda). E mentre lui si allontana con il suo canto da osteria ("La donna è mobile"), Rigoletto non può che scoprire l'ineluttabilità della maledizione.
Ma il capolavoro del Rigoletto è il quartetto "Bella figlia dell'amore". Ancora una volta un brano furbo, scritto per restare in mente ed essere canticchiato uscendo da teatro. Un brano difficile per i cantanti, un pezzo che sotto l'apparente semplicità nasconde una scrittura musicale molto densa. Anche teatralmente è una meraviglia (anche se non è un unicum): quattro cantanti che cantano quattro testi differenti, quattro melodie diverse, quattro stati d'animo completamente divergenti. La coppia Duca - Maddalena eseguono una schermaglia d'amore, con lui che cerca di convincere lei che civetta, mentre la coppia Gilda - Rigoletto duetta in modo molto più articolato: Gilda sostanzialmente parla al Duca, amante fedifrago, lamentandosi del dolore che lui le sta causando e non prestando attenzione a Rigoletto che cerca di convincerla che il Duca non merita affatto il suo amore, e fra sé e sé medita la vendetta. Il contrappunto fra le varie parti è articolato e complesso secondo la più fine stesura tecnica operistica, e questa raffinatezza fa a pugni con la volgarità del corteggiamento del duca. Ma ciò che più colpisce è il messaggio di incomunicabilità che fuoriesce dall'intreccio delle voci, con Gilda che urla non ascoltata verso il Duca, e Rigoletto che quasi non si sente. Questa versione che ho trovato è musicalmente straordinaria, con una Sutherland gigantesca, capace di sovrastare persino la voce di Pavarotti, e tutto ciò a 61 anni (poco credibile come Gilda, però....)



Mi rivedo nell'osteria, bambino, ascoltare un contadino non più sobrio comincia a cantare la parte del Duca, fino ad inerpicarsi in quel si bemolle che richiede un bel timbro ed un controllo da vero cantante. Non posso non pensare ad Amici Miei di Comencini, e alle zingarate che avevano questo brano come colonna sonora. Non posso non stupirmi di fronte al complesso contrappunto della partitura, e a quel mirabile equilibrio fra apparente semplicità e densità musicale. La perfezione della spuma del lambrusco, l'equilibrio fra il dolce ed il salato di una fetta di prosciutto, il sapore del gnocco fritto.

Contadini senza cultura capivano tutto dell'opera: ascoltavano con il cuore e con quello cantavano.

lunedì 15 luglio 2013

Venezia

Una città unica al mondo, irripetibile, anacronistica. Una caccia agli elementi estranei architetturali, camminare il naso in su trovando spunti gotici nel rinascimento veneziano, così unico.
Un caldo umido che mi infradicia la camicia, sempre troppo pesante.

Una Traviata ascoltata in una sala dall'acustica interessante, una soprano che non ha osato il mi bemolle finale (secondo me ce l'ha, ma l'aria condizionata era troppo forte nella sala) ma ha interpretato bene il ruolo, un tenore con un buon registro acuto, un decoroso Germont.

Una cena in una trattoria alla quale non avresti dato due lire, eppure delle sarde in saor che parlavano da sole, e il fritto di lei che è risultato delizioso anche a me.

Ma soprattutto la magia di vedere, sentire, annusare con lei.


lunedì 1 luglio 2013

Nonostante lo scippo

Sono qui


Nonostante lo scippo dello zaino. Facendo l'inventario alla guardia civil per la denuncia mi sono reso conto di quanto valore è possibile nascondere in uno zainetto. La macchina fotografica, il kindle, i ray ban, il voucher con i voli. I libri: le poesie di Neruda, l'ultimo Camilleri che mi ero tenuto per gustarmelo meglio al sole. La cintura.

Ma quella luce, quel mare, quel sole, quella libertà che si gode solo in alcuni luoghi sono riusciti d'incanto a farmi dimenticare tutto. 
Ciò che non riescono a farmi dimenticare è che questo è un sogno da condividere. E davanti ad un arroz negro nella sera fresca del sole che mi ha scaldato la pelle, vedo la sedia vuota davanti a me. 
Sarà l'ultima volta.


domenica 23 giugno 2013

Creuza de ma

Fra pochi giorni prenderò una boccata d'aria. Una settimana di distacco totale dal quotidiano, niente pc, poco telefono - e possibilmente non per lavoro. Non mi par vero.

Non ho un momento preciso per tirare le somme della vita, né il natale, né settembre, né il compleanno (ah, già, gli ultimi due coincidono per me). Ma le vacanze, a smozzichi anche quest'anno, quelle si che rappresentano un punto di svolta, un riferimento. Lo sono perché per me il mare, il relax, è fondamentale. Soprattutto in questi ultimi anni è il momento nel quale ho il tempo per guardare dentro me stesso senza furia, senza impazienza. L'incontro con il sole, con la sabbia, con il mare è rigenerante. Bello nuotare a lungo, andare a vedere il fondale, scoprire cosa si nasconde negli anfratti della scogliera. Bello uscire dall'acqua e addentare una pesca. Bello sentire il fresco dell'acqua che mi scivola addosso e che evapora al sole, richiamandomi ad un'altra nuotata.

Bello sarebbe vivere tutto questo più a lungo di una settimana troppo lunga e troppo breve allo stesso tempo. Bello sarebbe vedere in due le saline tingersi di rosa. Bello sarebbe passare le ore chiacchierando invece che immerso in uno dei 50 libri che mi porterò appresso (facile con l'ebook...). Bello sarebbe cenare chiacchierando, e gustando adagio adagio la serata. Ma tutto ciò succederà, prima o poi.

Per ora mi avvierò alla scaletta dell'aereo armato di pochissime cose materiali ma tante nel cuore.
Il sole mi renderà ciò che l'inverno mi ha tolto.


martedì 18 giugno 2013

Non solo i romani allagavano il colosseo

Uno dei più bei doni dell'invecchiamento è la capacità di guardare serenamente anche alle cose manifestamente strampalate. Anni fa mi sarei arrovellato - per non dir peggio - attorno a fatti o cose apparentemente di secondo piano. Oggi posso tranquillamente accettare cose esiziali, come il fatto che il mio supermercato non tenga più le caramelle all'orzo che tanto mi piacciono, oppure che donne che hanno condiviso con me momenti bellissimi non desiderino neppure parlarmi.

Però c'è sempre un ma: l'ingegnere inespresso che alberga in me non riesce a concepire come si possano pensare - prima che realizzare - certe cose.
Una di queste è la doccia. La quasi totalità degli alberghi, soprattutto quelli di una certa classe, è dotata di vasca da bagno con doccia integrata. Io francamente preferisco la doccia - l'ultimo bagno in albergo risale a parecchi mesi fa, e non è stata una gran giornata - ma capisco che la mia sia una delle opzioni possibili. Dunque, ben venga la vasca da bagno con la doccia dentro, purché sia usabile. E qui sta il problema: una buona parte delle docce integrate con la vasca da bagno degli alberghi sembra essere studiata apposta per trasformare la sala da bagno in una piscina. Ultimamente questo inconveniente si è trasformato in incubo: ovunque vada la fantasia dell'architetto si è sbizzarrita nella creazione di vasche da bagno così belle da vedersi quanto efficaci nel riversare per terra una quota parte dell'acqua erogata dal soffione.
Qualche settimana fa, una stanza con un bagno fantastico. Una vasca tonda incastonata in una piastrellatura nera. Una meraviglia per gli occhi, una delizia per una trombata memorabile un bagno in compagnia. Un bagno, appunto, non una doccia. E io, che mi fiondo sotto il getto, ammiro questa bellezza, diligentemente tirando la tenda per non bagnare. E mentre mi beo di questa meraviglia, sento come un rumore di cascatella che non è il rumore dell'acqua che esce dal soffione, no no.. Stupefatto, chiudo il rubinetto, e la cascatella continua. Nella penombra (erano le 4 del mattino, non volevo svegliarmi e mi ero fatto questa doccia alla luce della finestra non oscurata) scosto la tenda e scopro che la piastrellatura attorno alla vasca convogliava tutta l'acqua che cadeva ai lati della vasca verso il gradino che dava nella sala da bagno, e lì il ruscello gorgogliava bucolicamente litri e litri d'acqua sul pavimento, già mezzo allagato. Quindi, armato dell'asciugamano, ho cominciato a raccogliere acqua dal pavimento, strizzando nella vasca per una decina di minuti.
Il risultato è stato che, dopo questo esercizio, mi sono serenamente addormentato per la stanchezza...

Poco tempo dopo, altro viaggio, altra camera d'albergo. Arredamento ultramoderno, bellissimo. Linee tese anche nel bagno. Una vasca stupenda, lineare, con il bordo perfettamente orizzontale, bianca matt, immersa in un bagno color travertino. Un vetro classico su mezza lunghezza impedisce di schizzare a chi fa la doccia. Tutto sembra sotto controllo. Apro l'acqua, e dopo poco sento ancora il bucolico ruscello. Mi guardo attorno, e il vetro sembra sigillare perfettamente. Aguzzo la vista e finalmente noto che l'acqua, trattenuta dal vetro, cammina tranquilla sul bordo orizzontale della vasca finché il vetro finisce, e da lì, non sapendo bene dove andare, si espande sia verso la vasca che verso l'esterno. Bellissima la vasca, ma un piccolo risaltino sul bordo avrebbe convinto l'acqua a restar dentro... Ormai esperto, prendo un asciugamano e compio il mio dovere.

Finito il lavoro, guardo sconsolato. La bellezza delle forme, l'armonia dell'aspetto, non è l'unica qualità. E' necessaria anche la sostanza, la consistenza. Nelle vasche da bagno e maggiormente nella vita, soprattutto nei compagni che ci si sceglie.



giovedì 13 giugno 2013

Ordine, ordine!

Sbagliare è seccante per chiunque. A me secca ancora di più, perché oltre che con l'amor proprio ferito devo far pure conto con l'alta reputazione che ho di me stesso (per favore, i., non infierire troppo su questo punto!). Se l'errore che commetto è un errore di distrazione, mi incazzo ancor di più con me stesso. Infine, se l'errore è ripetuto, l'incazzatura va a mille.

Bene, ieri sera arrivo a casa. Pensieri per la testa, parole in bocca. L'estate che si presenta, bella, promettente di spiaggia, di sole, di sabbia, di sorrisi. E le chiavi di casa che non hanno più il posto nel paltò, e nemmeno nel soprabito. Stanno tranquille nel portaoggetti dell'auto, da dove le estraggo per aprire la porta del garage.
Sempre con i miei pensieri risalgo, le chiavi in mano, per sistemare l'auto in garage. Scendo, prendo la giacca dai sedili dietro, mi ricordo dell'ultimo di Montalbano che ho appena comprato e si trova sotto la giacca, passo dal bagagliaio per prendere la borsa del pc, chiudo l'auto con il telecomando, abbasso la saracinesca del garage e chiudo la serratura a scrocco. Riprendo la mia borsa, mi avvicino alla porta delle scale, cerco le chiavi di casa..... Porcavacca!!!! sono rimaste in auto.

Ora, ovviamente non ho un'altra chiave del garage con me. Sono chiuso fuori casa, fuori dal garage, e un po' anche fuori da me stesso. Vergogna e rabbia per essere stato così pollo da chiudere le chiavi in macchina. Ma soprattutto, incazzato nero perché è la seconda volta in un mese che mi succede!

Anche stavolta il vecchio genitore arriva ridendo sbertucciandomi con il suo duplicato. Le chiavi, anche stavolta, erano perfettamente riposte nel loro portaoggetti. Anche stavolta, risalendo in auto le avevo diligentemente rimesse a posto.....



mercoledì 29 maggio 2013

Mattinata

Un po' il sole che è sbucato inaspettatamente dopo una mattina cominciata sotto un tappeto di nubi basse e grigie, un po' il post di Mirka che me l'ha fatto ricordare, e la piccola discussione che abbiamo avuto, mi è venuto voglia di scrivere le mie impressioni su varie interpretazioni di questo celeberrimo brano, troppo spesso maltrattato perché si pensa che basti la voce per potersi permettere di eseguirlo.

Già, eseguirlo. Una delle peculiarità della musica classica, anche se leggera come per questo brano, è che l'interpretazione è componente essenziale del brano stesso. La stessa melodia può essere diversa, assumere colori differenti, emozioni antitetiche, anche a causa dell'interpretazione. Molte volte mi è capitato di ascoltare (o di suonare!) lo stesso brano dallo stesso esecutore, e trarne sensazioni completamente diverse.

Mattinata la cantano un po' tutti: è il classico brano da bis da recital tenorile, due minuti e pochi secondi, richiede voce potente ma senza eccessive difficoltà in esecuzione, tanto che veniva e viene eseguita anche da cantanti di musica leggera (Claudio Villa, Al Bano, e altri). Eppure, come succede spesso, è proprio sui brani semplici che si notano le grandi differenze interpretative.

Cominciamo con Boccelli. Non metto qui la versione che postò Mirka, ma un'altra che reputo già meglio, di un recente concerto in Senato.



La prima cosa che si nota è l'incapacità di tenere il tempo, costringendo l'orchestra ad un continuo inseguimento dei rubati e degli allargando. Un'interpretazione comunque non male, fino all'imbarazzante acuto finale.

Ascoltiamo ora la versione di Pavarotti, un Pavarotti ancora giovane e lontano dallo star system nel quale si calò al culmine della sua magnifica carriera. Il solito timbro chiaro, pulito, ricco, inconfondibile. Già allora una certa tendenza a gigionare sui tempi, ma tutto sommato tenuta sotto controllo. Facilissimo per lui l'acuto finale, supportato da una potenza vocale rara. Ciò che manca, come spesso manca nelle interpretazioni di Pavarotti, è l'emozione, che è confinata in una voce dal timbro inimitabile, che da sola vale l'ascolto.




Non è così irriverente ascoltare Claudio Villa nello stesso brano. Ho notato che in tutte le registrazioni che ho trovato i tempi sono decisamente larghi, più di 30 secondi su di un brano da 2:15. Il tempo largo aiuta il canto, e permette di cesellare meglio l'interpretazione, che nel suo caso è molto curata. Sicuramente una bella interpretazione, molto orientata all'emozione (e a smussare le difficoltà canore).




Passiamo ad un'interpretazione più "antica": Mario Del Monaco, nel pieno della sua carriera. Interpretazione del suo tempo, anni 50, ma senza forzature stilistiche troppo evidenti. In compenso un'esecuzione orientata a sfruttare le mostruose capacità vocali di questo grandissimo, stranamente caduto in oblio, tenore.



E siccome è in oblio, voglio fare un'orizzontale, riportando una seconda interpretazione, degli anni 70 a giudicare dall'abbigliamento, quando Del Monaco aveva già passato i sessant'anni. Tempi molto più stretti, ma potenza ed interpretazione sempre freschi. Solo qualche ricordo manierista nella pronuncia, da vecchio tenore di buona scuola...



E questa ultima interpretazione, se ascoltata senza il filtro della ricerca stilistica, è naturalmente "giusta", logica, dinamica, completa. E' la Mattinata

sabato 18 maggio 2013

Se son rose, fioriranno

Raffaella mi chiede se è merito mio. Materialmente si, ma l'insegnamento viene da mia mamma, o forse solo la passione. Forse la verità è un poco più articolata: non ho digerito il fatto di essere tornato a vivere in appartamento. Gli antenati contadini devono aver lasciato traccia nei miei geni: ho bisogno di giardino. Ho bisogno fisico di veder le piante cacciare le foglie, i fiori sbocciare. Ho bisogno di vedere la bellezza della natura che si risveglia, e di aiutarla a fare sempre meglio.

L'autunno scorso ho potato le rose, corte, pochi centimetri sopra l'innesto. Non sapevo bene se fosse questo il metodo, ma ricordavo di aver visto fare così da giardinieri esperti. Ho concimato a dovere, e ho aspettato tutto il lungo inverno. Le giornate di poca luce, di freddo intenso. La tristezza del buio alle cinque del pomeriggio, e del sole che non si vede mai. Il periodo nel quale si ha tempo di chiedersi tante cose nella solitudine della sera, e non solo per quanto riguarda le rose.

Poi marzo. Timidi segnali. Gemme ricercate, aspettate, studiate. E aprile, e quelle gemme che diventano rami promettenti, che crescono, che dicono che tutto è andato bene, meglio di quanto ci si poteva aspettare. E i boccioli chiusi, che piano piano crescono, si espandono. Poco alla volta, con studiata lentezza. Li guardo, e mi chiedo se saranno fiori come mi aspetto, o se non sarà un'illusione. I giorni passano, e sembrano confermare che di fiori si parla, e belli.

E poi, fra venerdì e sabato, ecco...


venerdì 10 maggio 2013

Tignanello

La tavola è, nella nostra cultura, un luogo importante, di aggregazione. Un luogo sociale. Dai tempi dei greci a tavola si ragionava, ci si scambiavano idee, emozioni. Si ascoltava musica. Si gustavano parole. Si degustava il vino, si godeva del cibo.

E' la grande cultura mediterranea, quella componente che manca spesso in quella anglosassone, peraltro ricca di altri aspetti. Io però, almeno in questo aspetto, mi sento molto del sud. Per me è essenziale, in un rapporto personale, sia esso di lavoro, di amicizia, d'amore, sedersi insieme a tavola. La mia morosa dei diciott'anni (ma non solo lei...) sostiene che guardando mangiare un uomo sa come lui sarà a letto, e dice che non si sbaglia mai. Ne son sicuro.

Forse per questo mi piace cucinare - sul risultato poi non garantisco, ho le mie preferenze che non sempre si sposano con quelle altrui. E mi piace bere bene, che non vuol dire sbracare, ma gustare vino ottimo, e goderne appieno. Poi ho bottiglie che amo particolarmente, che magari ho scoperto per caso e che poi sono diventate ricordi.

Di una ne ho parlato un anno fa, qui. Mi è piaciuto berla ancora pochi giorni fa, accompagnata da un filetto al pepe verde. Un cibo forte, aggressivo, che sicuramente copre un po' i sapori del vino, ma quel vino sa esserci, sa avvolgere, sa vivere, anche senza il cibo. Un vino perfetto, per chi sa capire il suo linguaggio.


lunedì 29 aprile 2013

Di qua e di la dell'Atlantico

Una telefonata, alle otto di sera del 25 Aprile. Un amico, uno di quelli trovati per caso, sulla strada del lavoro. Avevo poco più di trent'anni, e lui due mesi più di me. Era mio cliente allora. Facemmo un progetto insieme. Ci piacemmo. Lui perennemente sopra le righe, che parlava di cose apparentemente intelligentissime, opportunamente sfocate, e io che dopo averlo ascoltato un po' lo riportavo per terra dando concretezza alle sue fantasticherie.
Poi, da un giorno con l'altro, gli proposero una buonuscita sontuosa purché rassegnasse le dimissioni. Mi chiamò, ne parlammo, poi prese i soldi. Fece il consulente in un paio di aziende, ci sentivamo abbastanza spesso. Un giorno - ricordo, era poco prima di Natale - mi chiamò. Io pensavo fosse per gli auguri, invece mi disse che era in lizza per un posto di grande prestigio, in un'azienda conosciuta ovunque. Era in palla, carico. Voleva quel posto. Pochi giorni dopo mi chiamò un cacciatore di teste per un colloquio. Ci andai, non si rifiuta mai un colloquio, anche se io mi trovavo benissimo dove stavo allora - non sapevo cosa mi sarebbe aspettato dopo qualche anno. Il cacciatore mi descrisse la posizione, e dopo poche parole capii che si trattava dello stesso lavoro che interessava ad Antonio. Appena uscito lo chiamai, e lo misi al corrente. Dopo qualche settimana rimanemmo io e lui, e sembrava che volessero me. Fu a quel punto che lasciai la corsa, e fu assunto lui.

Dopo diversi anni, non avendo raggiunto la posizione apicale che gli interessava, lasciò la famosissima azienda per fare il consulente in proprio. Ci sentivamo regolarmente, sapevo che quel lavoro gli andava stretto. Qualche mese fa mi fece sapere che era entrato in una famosa società di consulenza, responsabile mondiale del business con un famoso marchio automobilistico. Un'altra grande posizione, di sicuro legata a quel posto per il quale ci eravamo trovati in corsa assieme.

Dunque, l'altra sera mi chiama. Lo conosco bene, so che ogni scelta è un messaggio. Se mi telefona ad un'ora inconsueta, in un giorno inconsueto per parlarmi di lavoro, devo capire bene. Mi racconta che stanno cercando un profilo particolare, e mi chiede se conosco qualcuno. Gli chiedo di descrivere, e lui sta sul vago. Gli chiedo dettagli sull'inquadramento, budget, e lui continua a non dar risposte. Poi mi dice: ti mando il profilo, vedi tu, mi fai sapere. Dopo un giorno mi manda la mail, guardo la descrizione. E' un po' sgarrupata, riconosco la sua mano, grandi panorami con dettagli micrometrici mischiati assieme. Di sicuro non è un profilo che cerchi così, di solito ci si affida a cacciatori di teste. Insomma, mi sta chiedendo se mi interessa, ma senza domandarlo direttamente.

E' per questo che sono amico di Antonio. Uno che non guarda in faccia nessuno, ma che è capace di attenzioni maniacali nel chiedermi di lavorare con lui senza che io lo possa vedere come qualcosa di limitativo verso me stesso.

Ci penserò. Tante cose entrano in questa scelta, anche come questo lavoro potrebbe inferire con la mia vita. Ma di sicuro ad Antonio devo un grazie.

La locomotiva

Non so che viso avesse
neppure come si chiamava,
con che voce parlasse
con quale voce poi cantava...

Quante volte ho cantato questa canzone, dai tempi in cui ero liceale. Quante volte ognuno di noi l'avrà cantata, una bella ballata, di quelle che danno la carica. La voce di Guccini è la voce di tutti noi, lo è stata soprattutto per coloro che appartengono alla mia generazione.

Oggi, quando ho sentito di quella sparatoria davanti a palazzo Chigi, improvvisamente ho sentito questa stessa canzone in mente. Che differenza c'era fra "l'eroe" della locomotiva, il "pazzo lanciato contro al treno" e il pazzo che spara addosso ai primi che trova? Entrambi colpiscono a casaccio, il primo causando una strage di persone normali che viaggiano nel treno, il secondo sparando addosso a dei carabinieri la cui unica colpa è di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Azioni inutili e dannose, entrambe, fatte verso innocenti.
Ma l'uomo della locomotiva ha avuto una canzone per lui. Un oscuro episodio di lotta anarchica reso eterno, sulle labbra dei tanti che hanno cantato le strofe anche per lui. Questo pazzo non avrà nulla, per fortuna. O magari, chissà, fra qualche anno qualcuno gli farà una poesia, o una canzone, celebrandolo come alfiere della lotta contro la casta.

Ci penso e mi dico che, per quanto quella canzone mi piaccia tanto, abbia tanti ricordi legati, non ho più voglia di cantarla. Non è facendo del male agli altri che si sostengono le idee. Nemmeno urlando sguaiatamente, perché qualcuno che prende l'aggressività verbale come incitamento alla violenza, prima o poi lo si trova sempre.


lunedì 15 aprile 2013

Impressioni

E il sole, finalmente!
E i gerani, le petunie, le rose nelle fioriere.
E il lago, il silenzio, il cielo terso che lascia passare i raggi del sole che ti scaldano la pelle, che dicono che fra due mesi si va al mare.
E la notte che scende, con il color cobalto del sole calato all'ovest dopo l'equinozio.
E la luna, piccola falce con una stellina proprio sopra, luminosissima.
Ed il Mozart di Geza Anda che suona nell'auto mentre ritorno.


martedì 9 aprile 2013

Gli artisti maledetti a Palazzo Reale



Domenica sono andato alla mostra temporanea in Palazzo Reale, denominata Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti.

Al solito, titolo acchiappapubblico, ma nemmeno troppo. In effetti, due sale dedicate a Modigliani e Soutine c'erano; gli artisti maledetti invece è una descrizione folkloristica per quella scuola artistica, se di scuola si può parlare, che fioriva nei primi 20 anni del novecento a Parigi.
In realtà scuola non fu, ma fucina di una buona parte dell'arte europea e non solo del novecento si. Fra Montmartre e Montparnasse in quegli anni transitarono scrittori, musicisti, pittori, filosofi, che poi aprirono i filoni più disparati. Picasso, Modigliani, Satie, Stravinsky e tantissimi altri, assidui frequentatori dei bistrot della zona e dell'assenzio, dell'hasish e dell'alcol, mediamente alla fame, quasi tutti di origini semite.

La vita di bohème, insomma


Amedeo Modigliani


Questa mostra, per me, è stata importante per la scoperta di pittori che non conoscevo affatto. Ma soprattutto è stata la folgorazione della poetica del ritrattismo. In un periodo artistico di pura rottura di ogni schema, nella letteratura come nella musica e nella pittura, questi artisti d'avanguardia, chi più chi meno, ripresero e rielaborarono il concetto del ritratto, non più come verosimiglianza (la fotografia consentiva già di ottenere ottimi risultati) ma come lettura introspettiva ed interpretativa nella somiglianza dei soggetti. E' impressionante vedere, dove erano disponibili, le foto dei soggetti ritratti e il dipinto. Ci si rende conto che, all'interno della destrutturazione dell'opera, i tratti somatici sono riconoscibilissimi. Ma il pittore evidenzia, fa uscire dal quadro l'anima della persona.

Mi ha particolarmente colpito questo quadro di Soutine, un pittore russo evidentemente pazzo, ma capace di rendere con una potenza esagerata il carattere del soggetto. Questo ritratto di ebreo mi richiama questo brano di Mussorgsky, Gnomus, tratto dai Quadri di un'esposizione, altrettanto potente e descrittivo.



Chaim Soutine



Un'artista che non conoscevo assolutamente è Suzanne Valadon. Una pittrice senza alcuna formazione, una modella che, posando, ha rubato la tecnica ai pittori che frequentava, e ha rappresentato il suo mondo, il suo punto di vista. I suoi nudi, autoritratti spesso, potenti, sensuali, sono miracolosi per quanto riescono ad esprimere uscendo al di fuori degli schemi accademici













Suzanne Valadon



Fra i vari tipi di ritratto, il nudo è quello più di rottura con la società e la cultura borghese di inizio 900. Un nudo non interpretato, urlato quasi, come nel caso di questo a fianco, che sfuma i dettagli del viso per concentrarsi sulla resa dell'addome del soggetto, con una resa non realistica, ma verosimile, e d'impatto emotivo molto evidente.














Henri Epstein



O come questo ritratto, che deve il suo impatto nella posa non ortodossa della modella, non certo nella sua esecuzione..

















Zygmunt Landau


Una mostra interessante, a mio avviso. Da gustare senza preconcetti, senza pensare di trovare il grande autore, ma un buon sentiero per avvicinarsi ad un periodo cruciale per l'arte europea.

giovedì 4 aprile 2013

Continua così, papà

"Venite tutti e due qui", ci dice. Si avvicina al pc, le chiede come fare a collegare tanti files word mantenendoli separati, tuttavia. Io già mi elaboro un raffinato sistema di link ad oggetti esterni e mi attrezzo a fornire una risposta tecnicamente elegante, asettica e molto incasinata, ma mia sorella - si vede che è una madre - gli dice: "fai una cartella nuova e buttali tutti li dentro".
L'uovo di colombo. Mio padre apprezza questa soluzione semplice e comprensibile. Io mi sento un nerd psicotico. Per fortuna non avevo aperto bocca.

Peraltro non capisco perché ci abbia chiamato entrambi al suo pc (di cui d'altronde non riesco nemmeno a leggere lo schermo, e lui lo sa). Ma ci ha chiamati con l'aria misteriosa che, da anni oramai, abbiamo imparato a non contrastare con domande, se non vogliamo che la spiegazione ritardi ulteriormente.

Comincia a spiegarci che in quei files ha descritto tutto quanto possiede, elencato beni, azioni, monete d'argento (si, mio padre ha sempre avuto la fissa di investire in queste baggianate, e non ammette di averci perso dei gran soldi). Ovviamente descritti nel modo più prolisso possibile, come sua abitudine, mescolando informazioni utilissime con una quantità di altre assolutamente inutili. Lo osservo mentre mostra il tutto a mia sorella, io me ne sto lontano, in disparte, e guardo la scena. Lo so, glielo avevo suggerito io mesi fa di fare qualche appunto, cercando di essere il più delicato possibile. Ha 84 anni mio padre, e sa anche lui di non poter aspirare a molti altri ancora, per di più con la lucidità che finora ha conservato. Eppure, vedere che dopo mesi ha finito il lavoro e ce lo presenta, mi ha calato addosso una tristezza enorme. Ci racconta che molti suoi amici, ex colleghi, sono affetti da malattie senili, taluni oramai non sanno più nemmeno chi sono. Teme di poter diventare anche lui così, e allora preferisce mettere tutto su file.
Sorrido. Ha elencato un sacco di malattie, ma ha evitato accuratamente di ricordare che, oltre alle malattie, alla sua età potrebbe mancare da un giorno all'altro. E' un buon segno: significa che si sente ancora in forze. Fa progetti per il futuro. Non smette di vivere.

Continua così, papà.



sabato 30 marzo 2013

Passione Luterana

Ieri sera ho preso il mio posto in uno dei più bei palchi della Scala, per assistere alla Passione secondo Matteo di Bach. Il clima non propriamente pasquale, anche se almeno ier sera non pioveva, ma dentro di me sentivo tutta l'uggia di questa primavera che non si decide ad arrivare, risuonando così con la malinconia del mio umore degli ultimi mesi.

La Passione eseguita il venerdì Santo. Esattamente come l'aveva pensata Bach. Credo sia stata un'operazione culturalmente felice di proporla nella ricorrenza sacra per la quale è stata pensata, in modo da sottolineare alcuni aspetti dell'opera che, a mio avviso, trascendono l'opera stessa.

La tradizione cattolica prevede per il venerdì Santo le processioni, la celebrazione del sacrificio di Cristo nel momento dell'anno più speciale. La Passione è una rappresentazione liturgica, secondo l'idea luterana che incoraggia il supporto musicale nella meditazione e nella preghiera. La Passione altro non è che il Passio, ossia la lettura delle pagine evangeliche della Passione del Cristo, però espresse in musica ed intervallate da brani meditativi. Rappresentare quest'opera di Bach nel venerdì Santo, insomma, è fare una liturgia che è tutt'altro che laica, è riprendere la tradizione di preghiera luterana e riproiettarla nella realtà cattolica che viviamo.

Anche per questa ragione ho voluto parteciparvi. Oltre all'ascolto di pagine meravigliose, c'era questo pungolo a vivere una sfera di religiosità che mi facesse confrontare con i temi della fede. Non pretendevo di trovare risposte, né le ho trovate, ma è stata una buona occasione per farmi domande, e trovare intuizioni artistiche che provassero a suggerire delle risposte.



Certo, il linguaggio di Bach forse non è dei più comprensibili oggi, e certi rimandi strutturali nell'opera (il tema iniziale che è lo stesso che chiude l'opera, in una specie di circolarità storica che rappresenta la riproposizione della Salvezza; lo stesso tema che è chiave per il contrappunto sull'altro tema ripetuto più volte  nei corali meditativi, con i due temi che si innestano quasi senza farsene accorgere, con la linea dei soprano invariata rispetto alle precedenti riprese, mentre le altre voci contrappuntano con diverso tema, creando un volume differente) resi magistralmente dall'orchestra e dal coro della Verdi sono comunque poco evidenti ad un orecchio non allenato. Ma la tensione, la preghiera, la rappresentazione del mistero di Dio che si sacrifica per l'uomo, è comprensibile a tutti.


Strana e mirabile, questa condanna!
Il buon pastore soffre in luogo delle pecore,
sconta la colpa il Signore, il Giusto,
in luogo dei suoi servi.

Sono uscito da tre ore di concerto con il cuore gonfio di domande, nessuna nuova risposta, ma la sensazione di aver avuto la visione di una realtà che non so vedere razionalmente, non so capire.


giovedì 28 marzo 2013

Il tempo fra i denti

L'unico segno tangibile della primavera sono gli afidi che hanno assalito le tenere foglioline delle mie rose. Per il resto, soprattutto qui a Parigi, sembra febbraio. Stamane, oltre al freddo che mi ha reso rosse le mani nella camminata dall'ufficio all'albergo, qualche piccolo fiocco di neve cercava di farsi largo.

Questo inverno, pesante, grigio come una lastra d'alluminio, non ne vuol sapere di finire. Perfino i fiori della magnolia si sono bloccati nel loro sbocciare: sono li chiusi, il bianco striato di rosso aggrovigliato. I pensieri che rivivono il passato, e io che cerco di tenerli distanti. Il male dentro che mi ricorda che se ho deciso di vivere pericolosamente lo devo fare fino in fondo, senza lamentarmi.

Eppure, l'anno scorso qui c'erano già i crochi che sbocciavano. Quest'anno sembra che non siano neppure stati seminati...


lunedì 25 marzo 2013

Il Trovatore

Come ho già scritto altrove, l'opera è un amore tardivo per me. Non so ancora nemmeno se di amore si possa parlare, a dir la verità: mi ci sto incamminando da qualche anno, con passi incerti, che denotano interesse e perplessità allo stesso tempo. Ma come tutti gli amori tardivi ha un sapore molto strutturato, pieno di rimandi, di armonie sconosciute e bizzarre, di scoperte e di intuizioni.

La chiave di svolta, per me, è stato comprendere che l'opera non è musica, non solo. E' teatro in musica, e come opera teatrale va approcciata. Di sicuro i libretti non sono spesso capolavori della prosa, anche per la necessità di condensare il testo a causa della lentezza imposta dal canto, tuttavia il canto stesso nobilita scritture che non si può non considerare traballanti dal punto di vista letterario.

E' il caso del Trovatore, che ho appena finito di seguire. Una rappresentazione con un organico orchestrale ridotto ma non povero (il volume sonoro era assolutamente sufficiente), scenografia essenziale (caratteristica di molte messe in scena del teatro Lirico di Como), attenzione al canto e alla recita.
Il Trovatore: un libretto a dir poco sgangherato, sostenuto però dalla forza di una musica che riesce a nasconderne le assurdità e la pochezza. Forza che deriva da una scrittura che, pur portando ancora la marca indelebile del Verdi "popolare" (le cabalette tutte uguali, gli accompagnamenti ternari da um-pa-pa bandistico) mostra già una ricerca musicale che poi si svilupperà appieno nelle opere seguenti. Ma è soprattutto la scena che unendosi alla forza della musica riesce a donare all'opera una verosimiglianza altrimenti difficile da sostenere.

La rappresentazione di questa sera ha portato giovani cantanti, non perfetti ma interessanti. Non ne conosco i nomi, purtroppo, ma l'organico era di buona qualità vocale, con punta di eccellenza nel baritono. Comunque tre ore passate senza accorgersene, tre ore di teatro, musica, emozione. Si, perché nonostante alcune manchevolezze anche notevoli, tutti i cantanti hanno messo l'anima ed il cuore. E, per quanto mi riguarda, questo mi emoziona sempre. D'altronde, l'amore è anche fatto di emozione...


sabato 23 marzo 2013

Abduraimov

Un mese fa l'avevo sentito suonare nel Triplo concerto di Beethoven, e mi aveva stupito. Questo giovanissimo pianista mi aveva colpito per la sua maturità, per la freschezza di lettura e la capacità di prendere in mano l'orchestra quando serviva. Cercai il suo sito web, e guardai se aveva pianificato qualche concerto da solista nei prossimi mesi. Purtroppo a Milano e dintorni nulla, solo tre concerti identici fra le Marche e l'Emilia. Decisi di andare a sentirlo a Modena, e acquistai il biglietto.

Oggi era il giorno. Il percorso Milano Modena l'ho fatto decine di volte, per lavoro e per cuore. Posso sbagliarmi sui tempi di percorrenza di qualche minuto, non più di dieci. Anche oggi, nonostante che dall'ultima volta fossero passati molti mesi - me ne son reso conto con stupore - non mi sono sbagliato nel tempo. Sono arrivato con l'anticipo necessario per parcheggiare con calma, farmi due passi, bere un caffè, dare un occhio al centro e poi andare a sentire Abduraimov nel suo programma, peraltro abbastanza scombinato.

Il giovane comincia con Alessandro Scarlatti: tre famosissime sonate (27, 450, 96), repertorio ghiotto di Horowitz e di Benedetti Michelangeli. La sua interpretazione non segue nessuna delle due: non ha la purezza neoclassica del secondo, ma nemmeno la vivacità timbrica del primo. Abduraimov mi pare piuttosto sperso nell'interpretare questo autore, e non si può applicare per lui la vecchia cattiva battuta che facevano ad Horowitz (il suo Scarlatti è splendido perché non lo capisce...). Alla fine, pensandoci, mi sono reso conto che non aveva trovato il cuore interpretativo dei brani, e non li riusciva ad interpretare. Dopo Scarlatti è stata la volta di una complessa sonata di Beethoven (la 12 op 26), che evidentemente gli è più congeniale. Pur mantenendosi su un'interpretazione che non mi ha dato emozioni, l'espressività e la genialità che a tratti sono emerse mi ha fatto ben sperare per il resto del concerto.

Purtroppo la chiave del resto del programma è stata quella del virtuosismo: la Fantasia di Chopin - che è una delle pagine del compositore polacco che meno mi piace - seguita da tre brani di Liszt. Il primo è la trascrizione per pianoforte della Danse Macabre di Saint-Saens, eseguito in modo molto trascinante. Il secondo era la Benedition de Dieu dans la solitude, e secondo me non è stato reso bene il pathos sognante Lisztiano che pervade molti brani di questo compositore. Qui, come sul difficilissimo brano di chiusura (lo scherzo e marcia op 177) l'accento è stato messo sulla tecnica e sui volumi sonori, veramente impressionanti. Abduraimov sa tirare fuori dal pianoforte dei suoni inusitati: l'energia violenta che scarica sulla tastiera è ideale per esprimere alcuni passaggi di Liszt; il problema è che si è persa, a mio avviso, tutta la traccia poetica che deve coesistere con la tecnica strabiliante. Cammeo di chiusura il meraviglioso notturno di Tchaikovsky.

Mi sono rimesso in strada per tornare incapace di definire l'ascolto fatto. Una sensazione di assenza di sapore, di mancanza di emozione. Sensazione assurda perché dal lato tecnico le emozioni ci sono state, e tante. Modena mi ha fatto tornare sotto una pioggia battente. Il cielo ha concentrato sulla città tutte le lacrime che non ho pianto io.


mercoledì 20 marzo 2013

Equinox

March 20th, 2013 11:02 UTC

Al botto di mezzogiorno sarà ufficialmente primavera... Qualunque cosa significhi.



lunedì 11 marzo 2013

Business as usual

Lavare i panni. Far finta di sistemare la scrivania. Reinstallare il pc di casa (dopo 4 anni s'ha da fare). Pranzo dalla mamma, e conseguente digestione difficile. Teatro, bello peso. Concerto.

Prenotare una settimana di vacanza. Progettare il ponte del primo maggio. Guardare con interesse i pantaloni leggeri, finalmente. Momix, Scala, concerto di Abduraimov, teatro ancora. Udine, Napoli, Parigi. Comprare un papillon? Palestra. Cazzo, prenotare il check-up, son tre anni che lo salti.

Una porticina nel vetro della cucina per la gatta? Potrebbe essere un'idea. Voglia di fare un incursione da Ricordi a comprare musica. Prenotare mostra di Modigliani. Le due cose insieme, ecco, Ricordi e Modigliani. Viene bene. Ottimizziamo.

La barca, la barca. M. ha detto che la mette in acqua presto, quest'anno. A maggio la si sposta. Ho trovato la mia cartelletta di navigazione, compasso squadrette, tavole, tutto quello che serve per la rotta. Già, la rotta. Una rotta tutta a zig zag, le correnti che ti spostano ti sbandano il vento ti schiaffa la faccia bello salato umido caldo. Si caldo. Caldo come... pensa al cielo azzurro al vento ai pensieri e parole dette fra amici alla chitarra scordata per passare il tempo ai delfini che ti vengono sempre a trovare al largo di Rosignano.

Delfini. Mare. Vacanza. Sabbia. Sole. E avanti. Business as usual.


venerdì 8 marzo 2013

Ma qual'è il vero vuoto?


Questo gioco dei post sul vuoto è stato per me interessante. Partito da uno stato d'animo, è diventata una provocazione, una ricerca. Chi ha interagito in vari modi (telefono, commenti, email) ha dato la sua interpretazione. Per me è stato molto interessante seguire le differenti sensazioni, i differenti approcci che ognuno ha voluto seguire.

Una provocazione, come l'opera qui sopra. Una scatoletta, non si sa bene se piena del prodotto in etichetta o no (credo che nessuno ne abbia mai aperta una), che Manzoni creò per dimostrare che il valore di un'opera dipende anche da una serie di fattori che sono avulsi dall'opera stessa. Sicché mise della merda in scatola, e ne fece un'opera d'arte. E pare che queste scatolette abbiano una quotazione da 60000 euro l'una....

Ora, come la merda di Manzoni, anche questa lagna (come dice i.) del vuoto ha avuto il valore e l'interpretazione che ognuno ha voluto darle. Sed l'ha presa come un gioco, e mi ha suggerito un passaggio. Altri l'hanno presa come una sofferenza. Altri come interpretazione di un messaggio che cercavo di far passare.

Credo di aver imbastito qualcosa che avevo in mente: una specie di installazione fatta con dei post, un percorso che creasse su di un blog un'esperienza analoga a quella di un'installazione artistica moderna, vivendo la quale ognuno riempie il vuoto che la rappresenta utilizzando il proprio contenuto, la propria espressività. L'osservatore parte integrante dell'opera, artista egli stesso con la sua partecipazione all'installazione. 
Non so quanto sia riuscito ad avvicinarmi a ciò che avevo in mente, e non so quanto questo possa interessare a chi è passato di qui. Probabilmente il risultato assomiglia al contenuto del barattolo, ma quel che conta, per me, è averci provato....

domenica 24 febbraio 2013

Il nipote di Rameau

Il nipote di Rameau è un opera letteraria in forma di dialogo, scritta dal filosofo e scienziato Diderot nella seconda metà del settecento, poco prima della rivoluzione francese. Diderot rimarrà nella storia per la sua opera più importante, icona dell'epoca dei Lumi, l'Encyclopédie, incarnando nella sua vita la formidabile ricerca che permeava la classe intellettuale francese dell'epoca, quella che ha dato il via a molte scienze, a rami nuovi della matematica, a visioni filosofiche, politiche e sociologiche che hanno improntato poi gli sviluppi dei due secoli seguenti.

Questo dialogo, nella forma e nei contenuti, non rappresenta nulla di rivoluzionario nel panorama culturale francese dell'epoca. Il saggio filosofico sotto forma romanzata era tipico dell'epoca (Rousseau, Voltaire hanno scritto le loro opere più famose utilizzando questa forma), e i temi trattati (l'etica, l'estetica, il bene ed il male) erano già stati affrontati dagli intellettuali e dai romanzieri coevi (oltre ai già citati filosofi, pure il marchese De Sade con quasi tutta la sua opera, Laclos con le Relazioni Pericolose, e così via..). L'originalità di quest'opera consiste nell'evidente sdoppiamento dell'autore nei due personaggi: Diderot stesso e Rameau. Partendo dall'impronta di un dialogo socratico (il filosofo che fa le domande al supposto discepolo, per metterlo in contraddizione), Diderot fa sgusciare Rameau - personaggio di poco onore, immorale, disonesto, tronfio della propria abiezione - dalle domande chiuse con le quali si pensa di mettere spalle al muro il guitto, fino a sconcertare e ribaltare la situazione. Il personaggio di Rameau è molto più complesso dei soliti personaggi da commedia morale, banali nelle loro virtù e vizi. Rameau è abietto e geniale, cortigiano e capace di affermare sé stesso, legato ad una morale "diversa", basata sull'utilità - e qui la preveggenza di Diderot è stata fulminante, intuendo gli sviluppi del pensiero filosofico, sociale e morale dei secoli seguenti al suo. Rameau è meravigliosamente sottile nell'estetica tanto quanto è paradossale nella morale, sottolineando la complessità reale di ciascun individuo, inclassificabile in una o poche categorie interpretative.

Un'opera difficile, quindi, pur se ricca di quella vivacità tipica degli scritti francesi settecenteschi. Un'opera ancor più difficile da rendere a teatro. Questa sera ho visto Silvio Orlando recitarla con lo spettacolo che sta portando in giro per l'Italia. Inizialmente mi sembrava avesse totalmente sbagliato registro, poi ho capito che la sua garbata cialtroneria era la chiave perfetta per interpretare l'opera. Io credo che si tratti di una grande prova, la sua, limpida ed efficace. Pur se si tratta di un ascolto non semplice, consiglio vivamente di andare a vedere questa messa in scena.


Giorno di svolte?

Fra qualche ora si vota. Anche questa volta la discussione politica è viaggiata così lontano dalla realtà della gente, dai problemi reali, da risultare stucchevole. Si voleva sapere come si intendesse uscire da questa crisi: non c'è stata nessuna idea razionale, solo una gara a chi spara la balla più grossa, a partire dal cavalier di gran balla che ci ha governati 8 sugli ultimi 10 anni e fa finta di aver abitato su Marte fino a ieri, fino ad arrivare all'economista di fama che ci ha governati nell'ultimo anno con una ricetta che sarebbero stati tutti in grado di scrivere.

Non sorprende che davanti ad uno scenario di squallore così evidente abbia buon gioco la politica di protesta urlata da un comico istruito da un web designer che si crede l'emanazione della divinità. Normalmente si chiamerebbe un bravo psichiatra per dirimere la questione, ma qui rischiamo di trovarci con il 20% dei voti dati ad uno che urla che le cose devono cambiare, ma che non dice come (o meglio, dice che per sanare il tumore bisogna cambiare il colore dello smalto delle unghie).

Poco fa ho letto sulla pagina fb di Fabrizio Rondolino gli ultimi sondaggi, chi vuole se li può andare a leggere li. Il quadro che ne esce plausibilmente porterà ad una ingovernabilità totale. Ci sono forti dubbi che, anche alleandosi con Monti, il blocco di centrosinistra possa arrivare alla maggioranza al senato (alla camera è garantita dal Porcellum) e quindi ci troveremo punto e a capo.

Come dicevo prima, è mancata una qualunque proposta, una visione, un piano per il futuro dell'Italia. Una risposta ai gravi problemi, che non sono le lauree di Giannino o le sparate sulle tasse senza un minimo di logica, ma la crisi di competitività di questa nazione che è causa della chiusura delle aziende e della disoccupazione conseguente. Poche analisi, confuse e lacunose. Nessun programma certo. Nessuna scaletta di cose da fare (il massimo è stato promettere di togliere l'IMU sulla prima casa, così, come se questo fosse la risoluzione dei problemi italiani), nessun piano. La campagna elettorale è stata solo un battibecco di comari, nulla di costruttivo.

Viene naturale chiedersi se, e per chi votare. Io credo che si debba votare comunque: chi non vota non è che protesta in modo costruttivo (alle scorse politiche il primo partito è stato quello degli astenuti; è servito a qualcosa, forse? Almeno come richiamo morale? direi di no....), semplicemente rinuncia ad esprimersi. Se proprio vuole protestare, ha a disposizione il comico prestato alla politica (o a qualcuno che lo manovra, chissà... capiremo presto chi telecomanda il cervello del web designer): almeno la sua protesta avrà la fisicità di tutti gli eletti di quel partito. Chi invece desidera scegliere ha davanti a se non molte strade realistiche: il centrosinistra, il PDL, la lista Monti. Il resto conta meno degli stellati.

Chi vota PDL stavolta credo lo debba fare consciamente. Dopo la fantastica dimostrazione di incapacità che hanno dato, pur avendo la maggioranza più robusta della storia della repubblica italiana, chi decide di votarli deve essere responsabile davanti a tutti di questa scelta. Non è più permesso nascondersi dietro alle minchiate tipo che arrivano i comunisti, o che il liberismo è la panacea di ogni male. Non è più permesso perché l'alternativa per chi la pensa così c'è, e si chiama Monti. Il quale, a mio parere, ha dato un pessimo esempio di governo nell'ultimo anno, non tanto per gli interventi draconiani, quanto perché non ha considerato l'effetto depressivo sull'economia degli stessi - e un economista dovrebbe saperlo....Però se si pensa che l'economia venga prima di ogni cosa Monti è un'alternativa seria al voto ad un politico che ha già dato dimostrazione di ampia incapacità, e stavolta l'alternativa è senza più alcuna scusa.

Chi invece sente di voler votare per una visione non liberista (liberista, non liberale) della società, può solo scegliere il centro sinistra. Non che nutra una particolare fiducia in loro, ma è l'unica proposta che cerchi di conservare un minimo di attenzione alla persona rispetto al moloch economico.

Insomma, non ho molte speranze che queste elezioni diano la svolta che serve al nostro paese, proprio perché di svolte non se ne è proprio parlato.....


mercoledì 20 febbraio 2013

Just saying this

Seduti attorno ad un tavolo rotondo. Cinque colleghi che devono decidere il da farsi per una presentazione. Guardo la scena, e mi estraneo da me stesso. Mi sposto alle mie spalle, vedo la mia nuca. Osservo la scena dall'alto, da distante.

Gli argomenti, le parole che si scambiano, un gioco di fioretto, una serie di sottintesi per capire senza dire. Vista dal di fuori la scena è terribilmente malinconica. Saltano fuori i caratteri di ognuno: il timido aggressivo, che entra sempre in controtempo, sfasato con l'enfasi e con l'argomento. Si vede che sta cercando di mettersi su di un terreno sicuro. Il mio io seduto al tavolo gli da spago, sa che poi lui ricambierà. C'è quello che si perde nei microscopici dettagli, che continua a schermirsi quando gli chiedi dettagli più di sintesi, che si tira indietro quando gli si da dei compiti. Bisogna portarlo a poco a poco ad accettare le cose.
C'è il volpone, quello che sta chiedendo l'attività, che sai che non ti ha raccontato le cose come stanno, che devi capire. Lo guardi, il suo corpo rivela quando racconta frottole, quando ti nasconde cose. Troppe volte. Devi lavorarci assieme, e sarà una gran fatica.
C'è il bravo esecutore. Quello che ti dice una montagna di cose, apparentemente sensate, per poi tirare delle conclusioni così sballate che lo guardi stupito, come per dire: hai un blackout al cervello? Affermi una cosa e poi la neghi nelle conclusioni?

Li osservo, e improvvisamente mi rendo conto di una cosa... hanno dei tic incredibili. Non li ascolto più: li guardo estasiato nel concerto di comportamenti assurdi. Uno che parte in espressioni e sussulti di falso riso, e capisco che avvengono quando è in tensione. L'altro che assume un'espressione da calcio al plesso solare, e poi comincia a strofinarsi istericamente le mani. Gli altri manco si accorgono, persi nella difesa del loro orticello.

Capisco che posso tirare subito le conclusioni dell'incontro: accetteranno qualunque cosa in questo momento. Ma mi prende una tristezza mortale: possibile che cinque persone adulte, persone che solo dieci anni fa sarebbero state prossime alla pensione o già pensionate, siano costrette a continuare a lavorare in un mondo sempre più stressante, così stressante da ridurli a comportamenti incontrollati così evidenti, che segnalano un malessere sempre più diffuso? Mi chiedo che significato stia assumendo la vita di persone che confinano la propria esistenza in sterili esercizi di bassa strategia, e di alto nervosismo. E quanta di questa energia investita sia poi funzionale ad effettiva produzione di valore, e quanta sia sprecata invece in inutili caroselli di equilibri interni.

Sono sempre più perplesso su questo mondo lavorativo che si ripiega su se stesso. Inutile. Destinato all'estinzione. Troppo spesso specchio fedele della società.


lunedì 18 febbraio 2013

Normale assurdità

Leggo la seguente notizia sulla Repubblica online. A questo punto manca solo la partecipazione del mostro di Marcinelle come testimonial dello Zecchino d'Oro....



Il signore elegante

Le persone in maschera si affollavano sulla scala del metrò. Tutti in centro. Parrucche viola, verdi, tricorni, mascherine. Bimbi e adulti con indosso qualcosa di buffo, colorato. Eppure tutti ben educati, nessuno degli scherzi di dubbio gusto che si usava fare un tempo.

Arriva il treno. Anche in carrozza ci sono persone mascherate, che intrattengono i bimbi che hanno con loro. Ma a fianco dei mascherati c'è tutta una sequenza di persone di ogni colore e nazionalità. Milano, e soprattutto la sua metropolitana, è diventata un crocevia di popoli, di razze, di lingue. Due ragazze parlano in russo fra loro, a fianco di un gruppo di ragazzi di colore che parlano una strana lingua. Una famiglia andina con un numero imprecisato di bambini tondi schiamazza rumorosamente. Osservo la scena, pensando a come la città sia così duttile, così flessibile da ospitare in tranquillità queste diversità.

Scorro lo sguardo attorno, e lo vedo salire. Un signore alto, probabilmente sui 60, 65 anni. occupa lo spazio in fondo, appoggiandosi ad uno dei pali verticali. Un soprabito come non se ne vedono più, di sartoria, un tessuto spinato grigio. Scarpe inglesi lucidissime, pantaloni gessati, un foulard di seta legato al collo, quasi come una cravatta. La sua eleganza antica stride con il carnevale della carrozza. Le mani dietro alla schiena, un mazzo di rose dal gambo corto.
Lo guardo, e immagino una storia. Lui sta andando a trovare una donna, si, lo si capisce dal mazzo di rose, rosse. Non ci si presenta da una donna senza rose. E' una storia difficile, lo sa. Benché sia un uomo che colpisce, lei è molto più giovane di lui. Lui lo sa. Sente che quello che può dare, che sa dare, che sta nella sua eleganza, nel suo parlare, nelle sue mani che disegnano arabeschi nell'aria mentre parla - quasi come un direttore d'orchestra disegna la musica di fronte ai musicisti - poco conta. Ma lui sta, dritto, appoggiato al palo del vagone del metrò, fiero nel suo soprabito corto spigato con il collo bordato di velluto. Fra poche decine di minuti la incontrerà, e non sa se quelle rose verranno accolte o guardate con distacco.

Glielo si legge in faccia: si sente un vecchio leone, ma non vuole smettere di vivere. Crede che ci sarà un tempo per lui. E mentre tutto intorno la carrozza si popola di maschere dirette in centro, lui quasi si staglia nella bellezza della sua antica eleganza.
Scendo dal metrò. Esco dal ventre della terra, torno a vedere il cielo, azzurro, del carnevale.




domenica 17 febbraio 2013

Grande musica

Ero molto dubbioso sul concerto di oggi. Programma strano, il pezzo forte eseguito da solisti a me completamente sconosciuti. Tutti gli ingredienti per una delusione cocente. Lo ammetto, ero prevenuto.
Invece mi sono trovato ad ascoltare uno dei migliori concerti della mia vita. Migliore forse anche perché assolutamente inaspettato.

Il pezzo più di richiamo era il triplo concerto di Beethoven, triplo perché l'organico richiede tre solisti per violino, violoncello e pianoforte, oltre all'orchestra. Un'opera ancora in bilico fra settecento e ottocento, pur se permeata dal genio di Beethoven che stava entrando nella sua fase matura, quella della terza sinfonia. E' un brano che si esegue poco al giorno d'oggi, perché non è semplice far combaciare le agende di grandi solisti; per questa ragione è invece un brano frequentato da giovani esecutori. Oggi c'erano tre giovanissimi: i fratelli Mari e Hakon Samuelsen, rispettivamente violinista e violoncellista, e il pianista Behzod Abduraimov, di soli 21 anni. Nel triplo il ruolo del pianoforte è di secondo piano rispetto al violino e soprattutto al violoncello, che gioca la parte espositiva. Eppure, fin dalle prime battute, superando la perfezione e l'ispirazione dei due fratelli, il pianoforte si imponeva come carattere, come incisività, come trascinatore. Senza sovrastare, ogni suo ingresso era un piccolo cammeo, una perfezione di fusione con gli altri strumenti ma contemporaneamente con un forte carattere solistico.
Io, che ho come riferimento un'edizione con interpreti straordinari, non la rimpiango. I tre ragazzi mi portano via, mi fan volare, in qualche caso mi stupiscono, mi commuovono. Dopo il lunghissimo primo movimento, il canto dell'adagio è portato dal violoncello in modo perfetto, sempre in equilibrio fra il lirico e la perfezione stilistica. Dolcissimo e avvolgente, il suono mi conduce, mi guida alla ricerca delle mie emozioni, che si esaltano o si chetano in sintonia con la musica. Mi rendo conto che la profondità dell'ascolto viaggia con l'emozione che viene evocata: una grande esecuzione riesce a risolvere, a trovare quella misteriosa chiave che sblocca l'anima e la invita ad aprirsi. A volte si tratta di trasporto, ma - per quel che mi riguarda - può succedere di smarrirsi anche per un'invenzione, un suono, un ritmo che non mi aspettavo. E Abduraimov l'ha fatto, nel terzo movimento, dove il rondò evolve in una polacca. Nell'unico intervento quasi solistico, questo giovane pianista ha fatto una cosa meravigliosamente folle: improvvisamente, ed evidentemente non concordata con il direttore, ha suonato due scale ascendenti, che erano in partitura, la prima con il tempo di polacca "classico", quello che eseguono tutti, infilando tuttavia un leggerissimo rallentando che ha spiazzato l'orchestra, per poi affrontare la seconda con un tempo da polacca chopiniana, con i tempi che si dilatano e si riprendono all'interno della battuta. L'orchestra non è riuscita a capire, ma lui ha tirato fuori un'interpretazione sublime di quelle quattro battute, un colpo di genio interpretativo. Stupito il direttore, stupita l'orchestra, Abduraimov se l'è andata a riprendere da solo, riportandola in ritmo perfetto.




L'ovazione finale è stata meritata. Emozionanti e bravissimi. Così tanto che credo che andrò a festeggiare la primavera in una città vicina, per ascoltare Abduraimov in un concerto solistico.

Ma non è finita qui. I pezzi di contorno erano stati scelti fra brani poco interpretati: le Ebridi di Mendelssohn e, soprattutto, le meravigliose e struggenti Metamorfosi di Richard Strauss. Quest'ultimo brano, primo ascolto anche per me, di una bellezza strappalacrime, da solo avrebbe dato valore ad un concerto. Si tratta delle riflessioni del vecchio Strauss, che vede lo scempio di Monaco alla fine della seconda guerra mondiale, e lo racconta in musica, con la sua musica sempre in bilico fra l'espressività della musica ottocentesca e le secche distonie di quella del novecento. Richiami di pezzi di temi dell'Eroica di Beethoven, disgregati e ricostruiti come mattoni di muri abbattuti e rimessi in piedi alla bell'e meglio, conducono il brano che si sviluppa in modo circolare, con una forma antica che vuole incontrare il moderno. Un canto di dolore per la follia distruttiva della guerra.
Interpretazione intensa e trascinante dell'orchestra dei Pomeriggi. Emozione e riflessione - poche settimane dopo il giorno della memoria - per me.