domenica 24 febbraio 2013

Il nipote di Rameau

Il nipote di Rameau è un opera letteraria in forma di dialogo, scritta dal filosofo e scienziato Diderot nella seconda metà del settecento, poco prima della rivoluzione francese. Diderot rimarrà nella storia per la sua opera più importante, icona dell'epoca dei Lumi, l'Encyclopédie, incarnando nella sua vita la formidabile ricerca che permeava la classe intellettuale francese dell'epoca, quella che ha dato il via a molte scienze, a rami nuovi della matematica, a visioni filosofiche, politiche e sociologiche che hanno improntato poi gli sviluppi dei due secoli seguenti.

Questo dialogo, nella forma e nei contenuti, non rappresenta nulla di rivoluzionario nel panorama culturale francese dell'epoca. Il saggio filosofico sotto forma romanzata era tipico dell'epoca (Rousseau, Voltaire hanno scritto le loro opere più famose utilizzando questa forma), e i temi trattati (l'etica, l'estetica, il bene ed il male) erano già stati affrontati dagli intellettuali e dai romanzieri coevi (oltre ai già citati filosofi, pure il marchese De Sade con quasi tutta la sua opera, Laclos con le Relazioni Pericolose, e così via..). L'originalità di quest'opera consiste nell'evidente sdoppiamento dell'autore nei due personaggi: Diderot stesso e Rameau. Partendo dall'impronta di un dialogo socratico (il filosofo che fa le domande al supposto discepolo, per metterlo in contraddizione), Diderot fa sgusciare Rameau - personaggio di poco onore, immorale, disonesto, tronfio della propria abiezione - dalle domande chiuse con le quali si pensa di mettere spalle al muro il guitto, fino a sconcertare e ribaltare la situazione. Il personaggio di Rameau è molto più complesso dei soliti personaggi da commedia morale, banali nelle loro virtù e vizi. Rameau è abietto e geniale, cortigiano e capace di affermare sé stesso, legato ad una morale "diversa", basata sull'utilità - e qui la preveggenza di Diderot è stata fulminante, intuendo gli sviluppi del pensiero filosofico, sociale e morale dei secoli seguenti al suo. Rameau è meravigliosamente sottile nell'estetica tanto quanto è paradossale nella morale, sottolineando la complessità reale di ciascun individuo, inclassificabile in una o poche categorie interpretative.

Un'opera difficile, quindi, pur se ricca di quella vivacità tipica degli scritti francesi settecenteschi. Un'opera ancor più difficile da rendere a teatro. Questa sera ho visto Silvio Orlando recitarla con lo spettacolo che sta portando in giro per l'Italia. Inizialmente mi sembrava avesse totalmente sbagliato registro, poi ho capito che la sua garbata cialtroneria era la chiave perfetta per interpretare l'opera. Io credo che si tratti di una grande prova, la sua, limpida ed efficace. Pur se si tratta di un ascolto non semplice, consiglio vivamente di andare a vedere questa messa in scena.


Giorno di svolte?

Fra qualche ora si vota. Anche questa volta la discussione politica è viaggiata così lontano dalla realtà della gente, dai problemi reali, da risultare stucchevole. Si voleva sapere come si intendesse uscire da questa crisi: non c'è stata nessuna idea razionale, solo una gara a chi spara la balla più grossa, a partire dal cavalier di gran balla che ci ha governati 8 sugli ultimi 10 anni e fa finta di aver abitato su Marte fino a ieri, fino ad arrivare all'economista di fama che ci ha governati nell'ultimo anno con una ricetta che sarebbero stati tutti in grado di scrivere.

Non sorprende che davanti ad uno scenario di squallore così evidente abbia buon gioco la politica di protesta urlata da un comico istruito da un web designer che si crede l'emanazione della divinità. Normalmente si chiamerebbe un bravo psichiatra per dirimere la questione, ma qui rischiamo di trovarci con il 20% dei voti dati ad uno che urla che le cose devono cambiare, ma che non dice come (o meglio, dice che per sanare il tumore bisogna cambiare il colore dello smalto delle unghie).

Poco fa ho letto sulla pagina fb di Fabrizio Rondolino gli ultimi sondaggi, chi vuole se li può andare a leggere li. Il quadro che ne esce plausibilmente porterà ad una ingovernabilità totale. Ci sono forti dubbi che, anche alleandosi con Monti, il blocco di centrosinistra possa arrivare alla maggioranza al senato (alla camera è garantita dal Porcellum) e quindi ci troveremo punto e a capo.

Come dicevo prima, è mancata una qualunque proposta, una visione, un piano per il futuro dell'Italia. Una risposta ai gravi problemi, che non sono le lauree di Giannino o le sparate sulle tasse senza un minimo di logica, ma la crisi di competitività di questa nazione che è causa della chiusura delle aziende e della disoccupazione conseguente. Poche analisi, confuse e lacunose. Nessun programma certo. Nessuna scaletta di cose da fare (il massimo è stato promettere di togliere l'IMU sulla prima casa, così, come se questo fosse la risoluzione dei problemi italiani), nessun piano. La campagna elettorale è stata solo un battibecco di comari, nulla di costruttivo.

Viene naturale chiedersi se, e per chi votare. Io credo che si debba votare comunque: chi non vota non è che protesta in modo costruttivo (alle scorse politiche il primo partito è stato quello degli astenuti; è servito a qualcosa, forse? Almeno come richiamo morale? direi di no....), semplicemente rinuncia ad esprimersi. Se proprio vuole protestare, ha a disposizione il comico prestato alla politica (o a qualcuno che lo manovra, chissà... capiremo presto chi telecomanda il cervello del web designer): almeno la sua protesta avrà la fisicità di tutti gli eletti di quel partito. Chi invece desidera scegliere ha davanti a se non molte strade realistiche: il centrosinistra, il PDL, la lista Monti. Il resto conta meno degli stellati.

Chi vota PDL stavolta credo lo debba fare consciamente. Dopo la fantastica dimostrazione di incapacità che hanno dato, pur avendo la maggioranza più robusta della storia della repubblica italiana, chi decide di votarli deve essere responsabile davanti a tutti di questa scelta. Non è più permesso nascondersi dietro alle minchiate tipo che arrivano i comunisti, o che il liberismo è la panacea di ogni male. Non è più permesso perché l'alternativa per chi la pensa così c'è, e si chiama Monti. Il quale, a mio parere, ha dato un pessimo esempio di governo nell'ultimo anno, non tanto per gli interventi draconiani, quanto perché non ha considerato l'effetto depressivo sull'economia degli stessi - e un economista dovrebbe saperlo....Però se si pensa che l'economia venga prima di ogni cosa Monti è un'alternativa seria al voto ad un politico che ha già dato dimostrazione di ampia incapacità, e stavolta l'alternativa è senza più alcuna scusa.

Chi invece sente di voler votare per una visione non liberista (liberista, non liberale) della società, può solo scegliere il centro sinistra. Non che nutra una particolare fiducia in loro, ma è l'unica proposta che cerchi di conservare un minimo di attenzione alla persona rispetto al moloch economico.

Insomma, non ho molte speranze che queste elezioni diano la svolta che serve al nostro paese, proprio perché di svolte non se ne è proprio parlato.....


mercoledì 20 febbraio 2013

Just saying this

Seduti attorno ad un tavolo rotondo. Cinque colleghi che devono decidere il da farsi per una presentazione. Guardo la scena, e mi estraneo da me stesso. Mi sposto alle mie spalle, vedo la mia nuca. Osservo la scena dall'alto, da distante.

Gli argomenti, le parole che si scambiano, un gioco di fioretto, una serie di sottintesi per capire senza dire. Vista dal di fuori la scena è terribilmente malinconica. Saltano fuori i caratteri di ognuno: il timido aggressivo, che entra sempre in controtempo, sfasato con l'enfasi e con l'argomento. Si vede che sta cercando di mettersi su di un terreno sicuro. Il mio io seduto al tavolo gli da spago, sa che poi lui ricambierà. C'è quello che si perde nei microscopici dettagli, che continua a schermirsi quando gli chiedi dettagli più di sintesi, che si tira indietro quando gli si da dei compiti. Bisogna portarlo a poco a poco ad accettare le cose.
C'è il volpone, quello che sta chiedendo l'attività, che sai che non ti ha raccontato le cose come stanno, che devi capire. Lo guardi, il suo corpo rivela quando racconta frottole, quando ti nasconde cose. Troppe volte. Devi lavorarci assieme, e sarà una gran fatica.
C'è il bravo esecutore. Quello che ti dice una montagna di cose, apparentemente sensate, per poi tirare delle conclusioni così sballate che lo guardi stupito, come per dire: hai un blackout al cervello? Affermi una cosa e poi la neghi nelle conclusioni?

Li osservo, e improvvisamente mi rendo conto di una cosa... hanno dei tic incredibili. Non li ascolto più: li guardo estasiato nel concerto di comportamenti assurdi. Uno che parte in espressioni e sussulti di falso riso, e capisco che avvengono quando è in tensione. L'altro che assume un'espressione da calcio al plesso solare, e poi comincia a strofinarsi istericamente le mani. Gli altri manco si accorgono, persi nella difesa del loro orticello.

Capisco che posso tirare subito le conclusioni dell'incontro: accetteranno qualunque cosa in questo momento. Ma mi prende una tristezza mortale: possibile che cinque persone adulte, persone che solo dieci anni fa sarebbero state prossime alla pensione o già pensionate, siano costrette a continuare a lavorare in un mondo sempre più stressante, così stressante da ridurli a comportamenti incontrollati così evidenti, che segnalano un malessere sempre più diffuso? Mi chiedo che significato stia assumendo la vita di persone che confinano la propria esistenza in sterili esercizi di bassa strategia, e di alto nervosismo. E quanta di questa energia investita sia poi funzionale ad effettiva produzione di valore, e quanta sia sprecata invece in inutili caroselli di equilibri interni.

Sono sempre più perplesso su questo mondo lavorativo che si ripiega su se stesso. Inutile. Destinato all'estinzione. Troppo spesso specchio fedele della società.


lunedì 18 febbraio 2013

Normale assurdità

Leggo la seguente notizia sulla Repubblica online. A questo punto manca solo la partecipazione del mostro di Marcinelle come testimonial dello Zecchino d'Oro....



Il signore elegante

Le persone in maschera si affollavano sulla scala del metrò. Tutti in centro. Parrucche viola, verdi, tricorni, mascherine. Bimbi e adulti con indosso qualcosa di buffo, colorato. Eppure tutti ben educati, nessuno degli scherzi di dubbio gusto che si usava fare un tempo.

Arriva il treno. Anche in carrozza ci sono persone mascherate, che intrattengono i bimbi che hanno con loro. Ma a fianco dei mascherati c'è tutta una sequenza di persone di ogni colore e nazionalità. Milano, e soprattutto la sua metropolitana, è diventata un crocevia di popoli, di razze, di lingue. Due ragazze parlano in russo fra loro, a fianco di un gruppo di ragazzi di colore che parlano una strana lingua. Una famiglia andina con un numero imprecisato di bambini tondi schiamazza rumorosamente. Osservo la scena, pensando a come la città sia così duttile, così flessibile da ospitare in tranquillità queste diversità.

Scorro lo sguardo attorno, e lo vedo salire. Un signore alto, probabilmente sui 60, 65 anni. occupa lo spazio in fondo, appoggiandosi ad uno dei pali verticali. Un soprabito come non se ne vedono più, di sartoria, un tessuto spinato grigio. Scarpe inglesi lucidissime, pantaloni gessati, un foulard di seta legato al collo, quasi come una cravatta. La sua eleganza antica stride con il carnevale della carrozza. Le mani dietro alla schiena, un mazzo di rose dal gambo corto.
Lo guardo, e immagino una storia. Lui sta andando a trovare una donna, si, lo si capisce dal mazzo di rose, rosse. Non ci si presenta da una donna senza rose. E' una storia difficile, lo sa. Benché sia un uomo che colpisce, lei è molto più giovane di lui. Lui lo sa. Sente che quello che può dare, che sa dare, che sta nella sua eleganza, nel suo parlare, nelle sue mani che disegnano arabeschi nell'aria mentre parla - quasi come un direttore d'orchestra disegna la musica di fronte ai musicisti - poco conta. Ma lui sta, dritto, appoggiato al palo del vagone del metrò, fiero nel suo soprabito corto spigato con il collo bordato di velluto. Fra poche decine di minuti la incontrerà, e non sa se quelle rose verranno accolte o guardate con distacco.

Glielo si legge in faccia: si sente un vecchio leone, ma non vuole smettere di vivere. Crede che ci sarà un tempo per lui. E mentre tutto intorno la carrozza si popola di maschere dirette in centro, lui quasi si staglia nella bellezza della sua antica eleganza.
Scendo dal metrò. Esco dal ventre della terra, torno a vedere il cielo, azzurro, del carnevale.




domenica 17 febbraio 2013

Grande musica

Ero molto dubbioso sul concerto di oggi. Programma strano, il pezzo forte eseguito da solisti a me completamente sconosciuti. Tutti gli ingredienti per una delusione cocente. Lo ammetto, ero prevenuto.
Invece mi sono trovato ad ascoltare uno dei migliori concerti della mia vita. Migliore forse anche perché assolutamente inaspettato.

Il pezzo più di richiamo era il triplo concerto di Beethoven, triplo perché l'organico richiede tre solisti per violino, violoncello e pianoforte, oltre all'orchestra. Un'opera ancora in bilico fra settecento e ottocento, pur se permeata dal genio di Beethoven che stava entrando nella sua fase matura, quella della terza sinfonia. E' un brano che si esegue poco al giorno d'oggi, perché non è semplice far combaciare le agende di grandi solisti; per questa ragione è invece un brano frequentato da giovani esecutori. Oggi c'erano tre giovanissimi: i fratelli Mari e Hakon Samuelsen, rispettivamente violinista e violoncellista, e il pianista Behzod Abduraimov, di soli 21 anni. Nel triplo il ruolo del pianoforte è di secondo piano rispetto al violino e soprattutto al violoncello, che gioca la parte espositiva. Eppure, fin dalle prime battute, superando la perfezione e l'ispirazione dei due fratelli, il pianoforte si imponeva come carattere, come incisività, come trascinatore. Senza sovrastare, ogni suo ingresso era un piccolo cammeo, una perfezione di fusione con gli altri strumenti ma contemporaneamente con un forte carattere solistico.
Io, che ho come riferimento un'edizione con interpreti straordinari, non la rimpiango. I tre ragazzi mi portano via, mi fan volare, in qualche caso mi stupiscono, mi commuovono. Dopo il lunghissimo primo movimento, il canto dell'adagio è portato dal violoncello in modo perfetto, sempre in equilibrio fra il lirico e la perfezione stilistica. Dolcissimo e avvolgente, il suono mi conduce, mi guida alla ricerca delle mie emozioni, che si esaltano o si chetano in sintonia con la musica. Mi rendo conto che la profondità dell'ascolto viaggia con l'emozione che viene evocata: una grande esecuzione riesce a risolvere, a trovare quella misteriosa chiave che sblocca l'anima e la invita ad aprirsi. A volte si tratta di trasporto, ma - per quel che mi riguarda - può succedere di smarrirsi anche per un'invenzione, un suono, un ritmo che non mi aspettavo. E Abduraimov l'ha fatto, nel terzo movimento, dove il rondò evolve in una polacca. Nell'unico intervento quasi solistico, questo giovane pianista ha fatto una cosa meravigliosamente folle: improvvisamente, ed evidentemente non concordata con il direttore, ha suonato due scale ascendenti, che erano in partitura, la prima con il tempo di polacca "classico", quello che eseguono tutti, infilando tuttavia un leggerissimo rallentando che ha spiazzato l'orchestra, per poi affrontare la seconda con un tempo da polacca chopiniana, con i tempi che si dilatano e si riprendono all'interno della battuta. L'orchestra non è riuscita a capire, ma lui ha tirato fuori un'interpretazione sublime di quelle quattro battute, un colpo di genio interpretativo. Stupito il direttore, stupita l'orchestra, Abduraimov se l'è andata a riprendere da solo, riportandola in ritmo perfetto.




L'ovazione finale è stata meritata. Emozionanti e bravissimi. Così tanto che credo che andrò a festeggiare la primavera in una città vicina, per ascoltare Abduraimov in un concerto solistico.

Ma non è finita qui. I pezzi di contorno erano stati scelti fra brani poco interpretati: le Ebridi di Mendelssohn e, soprattutto, le meravigliose e struggenti Metamorfosi di Richard Strauss. Quest'ultimo brano, primo ascolto anche per me, di una bellezza strappalacrime, da solo avrebbe dato valore ad un concerto. Si tratta delle riflessioni del vecchio Strauss, che vede lo scempio di Monaco alla fine della seconda guerra mondiale, e lo racconta in musica, con la sua musica sempre in bilico fra l'espressività della musica ottocentesca e le secche distonie di quella del novecento. Richiami di pezzi di temi dell'Eroica di Beethoven, disgregati e ricostruiti come mattoni di muri abbattuti e rimessi in piedi alla bell'e meglio, conducono il brano che si sviluppa in modo circolare, con una forma antica che vuole incontrare il moderno. Un canto di dolore per la follia distruttiva della guerra.
Interpretazione intensa e trascinante dell'orchestra dei Pomeriggi. Emozione e riflessione - poche settimane dopo il giorno della memoria - per me.

giovedì 14 febbraio 2013

Armonie

Due donne, una signora con una piega perfetta che sottolinea la sua fascinosa maturità, e l'altra, più giovane e dallo sguardo da dura cerbiatta. Ci salutano, dopo il teatro, sotto la galleria del Nuovo.

Una serata così, un musical decisamente scadente. Ed ora si torna a casa. Loro vanno a prendere l'autobus, hanno lasciato l'auto lontana. Nel gelo della sera, attraversano San Babila. Fanno un po' di passi, e dolcemente si cercano le mani. Intrecciano le dita.

Le guardo avanzare, vicine e distanti fra loro. Vedo la leggerezza e la dolcezza del loro tenersi. Del voler essere coppia senza darlo troppo a vedere. Dello sfidare il giudizio altrui con un timido coraggio.

Io vedo solo un gran bel modo di stare insieme. Averle osservate in quei dieci secondi è valsa la serata. Ho invidiato loro il calore che emanavano.


martedì 12 febbraio 2013

Pericoloso e tenero il volto dell'amore


Pericoloso e tenero
il volto dell'amore
m'è apparso la sera
d'un lunghissimo giorno
Forse era un arciere
con l'arco
o un musicante
con l'arpa
Non so più
Non so niente
La sola cosa che so
è che mi ha ferito
forse con una freccia
forse con una canzone
La sola cosa che so
è che mi ha ferito
ferito al cuore
ferito per la vita
E brucia come brucia 
la ferita dell'amore.

Jacques Prévert - Pericoloso e tenero il volto dell'amore


domenica 10 febbraio 2013

Guardo negli occhi questo cielo azzurro

Per lunedì le previsioni danno neve, e anche tanta. Ma oggi il cielo è di una bellezza abbagliante: terso, luminoso, azzurro. Sembra già luce di primavera. Le giornate si stanno allungando, la gatta viene a svegliarmi già prima che suoni la sveglia. Devo riabituarmi a farle le coccole senza nemmeno svegliarmi.

Questa luce mi riempie, scavando contemporaneamente quel senso di vuoto da colmare, quella chiara sensazione di crescendo degli archi, con gli ottoni che si stanno preparando a gettarsi nel vortice del tutti per far esplodere l'orchestra, e vibrare lo stomaco sotto i colpi dei timpani.

Ma questo crescendo deve avere un tema. Deve seguire un percorso, avere un racconto da urlare. Ecco, è questa l'assenza che sento in me. Un tema flebile, lontano, che mi piace ma non so se potrà veramente sopportare il peso del brano. E' un periodo complicato, un po' come se rivedessi più del solito la mia vita in replay. E non basta fare cose, vedere gente, per distrarsi. Alla fine, solo con me stesso ci sono sempre.

A volte mi capita di leggere cose, anche poche parole, e il pensiero corre, rivisita la vita e le sensazioni raccolte. E spesso le assenze, totali. Ho letto una frase bellissima qualche giorno fa, nel blog di Verdeacqua. In un inciso diceva che aveva fatto l'amore con il suo compagno, quell'amore intenso, vero, di due che sono una squadra. Così diceva, proprio perché sottolineava che in quel momento dovevano far squadra, e la squadra c'era, e si esprimeva anche nel sesso.
Pensavo che, a dispetto dei cinque lustri di matrimonio, non ricordo un singolo episodio di questo tipo. La squadra ero io, e non per mania di protagonismo. E non c'era amore bello, intenso, a fortificare. E ancora più forte è la consapevolezza che questo tipo di sensazione nel fare l'amore l'ho avuta sempre quando la squadra - se mai c'era stata - si stava sfaldando. Eppure le anime, e i genitali di entrambi, durante l'amore, parlavano. Dio, come parlavano!
Mi chiedo dove ho sbagliato, cosa ho sbagliato. Non per recriminare, ma per cercare di evitare di rifare gli stessi errori, di ricreare gli stessi deserti.

Guardo negli occhi questo cielo azzurro. Domani, forse stanotte, nevicherà. Poi verrà la primavera, il caldo, il mare. Già mi stanno arrivando gli inviti in barca (finalmente!). Spero che almeno qualcuno di questi si trasformi in realtà. Gli stivali da barca nuovi, comprati l'anno scorso e mai usati, giacciono perplessi con tutta l'attrezzatura. Tutte cose belle, dovrei esserne contento.
Però io continuo a guardare negli occhi questo cielo azzurro, incurante del fatto che ad ore nevicherà. Gli occhi di questo cielo, azzurri. Lontani.




giovedì 7 febbraio 2013

Divieto di compleanno

Leggendo le notizie online, stasera mi sono imbattuto, fra le altre, in questa straordinaria innovazione sanitaria proveniente dall'Australia. Per questioni di igiene, infatti, lo stato Australiano ha vietato, nelle scuole materne, di soffiare sulle candeline delle torte di compleanno.

I bacilli si diffondono più facilmente con il soffio, dicono gli esperti, e sicuramente è vero. Così facendo i germi dell'influenza, e di altre malattie si diffondono con maggior facilità. Probabilmente c'è un fondo di saggezza in tutto questo. Io però mi chiedo quante feste di compleanno facciano, al giorno, questi bimbi, e se nei loro giochi non mettano mai la bocca in contatto con oggetti, mani, visi, di altri bambini. Ma soprattutto mi domando se sia poi così naturale far vivere i bimbi che non hanno particolari patologie in modo asettico.
Non vale forse la pena di correre il rischio di un raffreddore pur di poter gioire di un momento di felicità con i propri amichetti?

E poi penso a questa mania di sterilità, di igiene al di la del muro del ridicolo. E penso che altro non è che la smania di asetticità che poi pervade anche i rapporti interpersonali. La paura di star male che poi ti impedisce di star bene, come sottolineava stasera Gramellini nella sua intervista alle invasioni barbariche, non è che la variante sentimentale della torta con le candeline, a ben pensarci. Solo che mentre questa ci appare evidente nella sua ridicola esasperazione, la sterilità sentimentale spesso è presentata come la panacea per l'equilibrio psicologico della persona.

Per quanto mi riguarda, io voglio soffiare sulla mia torta di compleanno. Più o meno così....


lunedì 4 febbraio 2013

La Traviata

La Traviata è l'opera lirica più rappresentata al mondo. Una ragione ci deve pur essere, e probabilmente non bastano le sue celebri arie per giustificarne completamente il successo. Io credo che Traviata sia, in fondo, un punto di arrivo per molti aspetti teatrali, musicali e psicologici.

Innanzitutto, l'Opera. Il teatro dell'Opera è teatro con musica. All'inizio, dalla nascita con Monteverdi si trattava di teatro "accompagnato" dalla musica, il recitarcantando. La musica sottolineava l'azione teatrale, ne era in un certo modo dipendente. Nel settecento, con l'avvento del teatro che io chiamo borghese, ossia quello destinato all'imprenditorialità e non alla corte regale, la musica diventa l'elemento trainante, e la necessità di attrarre il pubblico porta allo sviluppo delle arie, sempre più complesse e melodiche, fino a che l'aspetto teatrale non diviene altro che la giustificazione per collegare le parti cantate. I recitativi, da svolgere in fretta, reggono lo svolgersi della storia, che sull'aria si siede, e dedica tempo ed energia per spiegarsi in un canto che poi può decretare il successo o l'insuccesso della messa in scena.
Comunque, l'Opera è innanzi tutto teatro, è una storia da raccontare. Traviata è una storia, una storia borghese, frutto dell'immaginazione di Dumas, che scrive la Dame aux Camelias, dramma in perfetto tono ottocentesco francese. Una storia potente, tant'è che viene presa come trama da più Opere, e anche oggi è stata utilizzata nella sua impalcatura, ad esempio dal film musicale Moulin Rouge (peraltro molto bello). Quindi, storia ottocentesca che è capace di parlare anche ai nostri tempi.

La musica. Verdi, a mio avviso, non è un musicista sublime. Abbastanza povero di idee musicali, alquanto ripetitivo nella stesura, aveva tuttavia una capacità credo unica: quella di saper "leggere" il libretto teatrale e "viverlo", non accompagnarlo né sovrastarlo, con la musica. Tutti i musicisti d'Opera hanno seguito percorsi analoghi, ovviamente, ma credo che Verdi avesse una capacità unica di fare osmosi fra musica e testo, con capacità sorprendente di sinergia fra i due. E' noto che, nella scrittura dell'Opera, Verdi richiedesse continue modifiche al libretto, proprio per seguire questo suo percorso creativo, per dare sensazione al testo e struttura alla musica.

La psicologia: il testo di Dumas era una storia coinvolgente, l'abbiamo già detto, ma una storia "altra", ossia, la storia dei personaggi. Verdi, con il librettista Piave, ha saputo rubare l'anima dei personaggi, e renderla un tutt'uno con quella di chi ascolta. Non è più una storia rappresentata, ma è la storia delle emozioni, dei dubbi, delle incertezze, delle incongruenze dell'animo e della passione umana, trasposta in teatro ed in musica.

La storia è presto detta: Violetta è una cortigiana (oggi sarebbe una frequentatrice di cene eleganti, insomma). Una donna che da un lato deve il suo successo alla mancanza di passione vera nella sua vita, dall'altra una donna che ha paura di queste passioni, ha paura della fragilità che porta l'amore, che ha paura ad abbandonarsi ad una gioia che le potrebbe essere negata. Alfredo è l'uomo che la desidera, un uomo innamorato, che la vuole conquistare. Teatralmente rappresenta l'evento amoroso. Attorno ai due personaggi brulica la vita: la società, con i suoi pettegolezzi e le sue regole e il denaro, il terzo personaggio dell'opera. Fra questi personaggi emerge Germont, il padre di Alfredo, che rappresenta l'ingerenza degli obblighi, della società, delle regole di vita, in una parola gli ostacoli dell'esistenza. Ecco fatto, il piatto è servito: dietro al dramma tutto trine e velluti dell'alta società, ci si ritrova nelle pulsioni eterne, nelle paure, nei lacci e negli ostacoli dell'esperienza di ognuno.
Lo sviluppo della storia, a questo punto, è solo funzionale ad una rappresentazione teatrale. L'identificazione fra il pubblico ed i personaggi è così forte che la storia diventa solo un elemento decorativo.

L'opera non fa a tempo a cominciare, che Verdi ci butta direttamente nella vita. Una cena, i pettegolezzi che corrono, gli sguardi e le mezze frasi fan da contorno al coro del brindisi, primo momento lirico dell'opera. Non a caso: è dalla società che escono tutti i vincoli e gli ostacoli, e le opportunità. Nella società Alfredo riesce finalmente a contattare Violetta (malata, ma questo serve per poter dare una chiusa tragica all'opera, come si addice all'Opera musicale italiana). Violetta vive un'emozione forte, diremmo un innamoramento, e Verdi le fa esprimere tutti i dubbi che ognuno di noi conosce. Nell'aria "Sempre libera" Verdi raggiunge uno dei punti più alti di sintesi teatrale musicale. Un canto lontano (il subconscio di Violetta) canta la canzone dell'amore, "Di quell'amor ch'è palpito". Lasciarsi andare, vivere il sentimento. Violetta ascolta, sembra scivolare, lasciarsi andare, ma poi la paura ha il sopravvento ("Follie!") e si libera nell'urlo del "Sempre libera", nel quale enuncia la sua decisione di non vivere un sentimento, ma di cogliere il bello da ogni fiore. Ma... malandrina si infila di lontano la voce di Alfredo che canta, lui pure, "di quell'amor ch'è palpito". Lo canta orgoglioso, felice, sereno, e Violetta sente l'animo dividersi.
Cambia la scena, e Violetta ed Alfredo vivono assieme, lontani da Parigi. Alfredo canta l'appagamento dell'uomo che ha trovato la donna della sua vita ("Dei miei bollenti spiriti"), ma il destino bussa alla porta. Germont, con la scusa che il futuro marito della sorella di Alfredo, saputo il suo legame con Violetta, rifiuta di sposarla per timore di imparentarsi con una donna chiacchierata, chiede a Violetta di lasciare Alfredo. Un po' con l'inganno, un po' con il convincimento, la convince.
A leggerla così, la storia è ridicola, ma il significato vero è che Violetta, e poi Alfredo, non sono capaci di prendere in mano il loro destino, le loro scelte, di affrontare le avversità, impersonificate da un Germont che spinge entrambi a piangere, e non a lottare per il loro amore.
Da li, tutto conduce al finale tragico, dove al capezzale di Violetta si riuniscono i personaggi dell'opera, con Germont che, convitato di pietra, firma il destino avverso di un amore che non ha saputo difendere se stesso.

Verdi riveste di colori potenti i vari passaggi psicologici. Nessun recitativo, solo quadri che assolvono anche il compito di far capire cosa è successo fra uno e l'altro. Musica che sottolinea efficacemente i differenti momenti dell'opera. Arie orecchiabili, com'era richiesto per il successo, e parti difficili e faticose (soprattutto per il soprano, costretto a cantare praticamente continuamente per l'intero primo e quarto atto. Ma soprattutto il maestro ha saputo estendere, con la musica, il significato dell'atto scenico, e scavarlo appieno a livello psicologico.
Come esempio, i dieci minuti continuativi del soprano alla fine del primo atto, la lotta fra l'abbandono al sentimento e la paura di questo.






È strano! è strano! in core
Scolpiti ho quegli accenti!
Sarìa per me sventura un serio amore?
Che risolvi, o turbata anima mia?
Null'uomo ancora t'accendeva O gioia
Ch'io non conobbi, essere amata amando!
E sdegnarla poss'io
Per l'aride follie del viver mio?
Ah, fors'è lui che l'anima
Solinga ne' tumulti
Godea sovente pingere
De' suoi colori occulti!
Lui che modesto e vigile
All'egre soglie ascese,
E nuova febbre accese,
Destandomi all'amor.
A quell'amor ch'è palpito
Dell'universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
A me fanciulla, un candido
E trepido desire
Questi effigiò dolcissimo
Signor dell'avvenire,
Quando ne' cieli il raggio
Di sua beltà vedea,
E tutta me pascea
Di quel divino error.
Sentìa che amore è palpito
Dell'universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor!
Resta concentrata un istante, poi dice
Follie! follie delirio vano è questo!
Povera donna, sola
Abbandonata in questo
Popoloso deserto
Che appellano Parigi,
Che spero or più?
Che far degg'io!
Gioire,
Di voluttà nei vortici perire.
Sempre libera degg'io
Folleggiar di gioia in gioia,
Vo' che scorra il viver mio
Pei sentieri del piacer,
Nasca il giorno, o il giorno muoia,
Sempre lieta ne' ritrovi
A diletti sempre nuovi
Dee volare il mio pensier.


venerdì 1 febbraio 2013

Sad Song

Sembra quasi bello, il tempo. Conoscendo i luoghi, so che fuori città ci deve essere nebbia. Me lo dice il velo sul cielo, quel velo che altro non è che la nebbia che il calore della città ha alzato, ma che fuori dai palazzi e dalle strade di sicuro torna a terra.

Esco sul balcone, in camicia, il caffè in mano. Penso che è la prima volta dall'inizio dell'inverno, penso che è buffo farlo nei giorni della merla, quelli tradizionalmente gelidi. Non sento freddo, forse non voglio sentire freddo.
Butto un occhio ai vasi, all'oleandro ristretto nella sua stasi invernale. Vedo che si trova bene qui, su questo balcone. Meglio di come si trovava nella casa di prima, quella nella quale accoglieva chi entrava dal cancelletto. Qui è riparato, prende più sole. Si è infoltito, è cresciuto. Mi piace.

Ripenso a chiacchierate con amici. Penso a quanto siano complesse le persone, a quanto complicato sia ciò che si agita dentro l'animo umano, alle forze che spingono in direzioni opposte, a quanto spesso non si sappia decidere il da farsi, strattonati fra pulsioni e ragioni contrastanti.

Ieri sera mi sono seduto nella mia poltrona. Con calma ho respirato. Ho guardato le cose disperse in giro da mesi, il disordine regnante, che rispecchia un po' il mio modo di essere, e un altro po' il disinteresse verso la casa, verso questa casa. E ho fatto scivolare un cd nel lettore. Mi è piaciuto lasciarmi trasportare dalla musica. Musica diversa dalla mia solita, ma piena di fascino, di messaggi, di complessità.

E mentre penso a questo, guardo le mie rose. Piccole gemme rosse lunghe un centimetro stanno sbocciando. La primavera sta arrivando, eccola lì. Prima le rose della magnolia.
Finisco il mio caffè. Un altro giorno mi aspetta.